Le parole che generano odio
La selezione delle informazioni che quotidianamente vengono veicolate dai mezzi di comunicazione è un tema molto serio perché riguarda la vita di tutti noi. Condiziona le nostre scelte, determina i nostri comportamenti e le opinioni che ci formiamo, ha rapporti stretti con il principio della libertà, sia quella collettiva sia quella personale.
Per questo motivo chi ha responsabilità nel governo dei flussi di informazione – direttori di giornali, presidenti di reti televisive (specie se pubbliche) o gestori di piattaforme di news sul web – dovrebbe essere ben saldo in un profondo convincimento culturale sul valore del suo lavoro e sulle responsabilità che ricadono direttamente sulle sue spalle. Il primo e più importante dei principi è questo: non esiste oggi un unico sistema coordinato e occulto che governa i flussi delle informazioni. Ne esistono tanti, e non sono per nulla occulti. Il fatto di dare o di non dare una notizia, il modo di presentarla al pubblico, è una dinamica che è completamente e liberamente nelle mani delle redazioni e dei singoli giornalisti. La moltiplicazione delle fonti di informazioni, la loro accessibilità e il loro libero utilizzo si sono a tal punto sviluppati negli ultimi anni che il mestiere del giornalista è diventato uno dei più diffusi (e anche più pericolosi) al mondo. E’ certamente vero che il potere non ama la divulgazione fuori controllo delle informazioni e spesso colpisce fisicamente chi diventa troppo fastidioso. Ma il potere non è un entità astratta e anzi opera in maniera piuttosto visibile e riconoscibile. Non si tratta di lobby né di sodalizi segreti. Il potere è. E per il solo fatto di esserci (a volte come frutto di processi democratici, altre volte come conseguenza di dinamiche autoritarie) genera situazioni asimmetriche. Le quali spesso producono a loro volta risentimento.
In questo contesto ci sono giornalisti, singoli o organizzati in agenzie di stampa, che lavorano invece con l’intento dichiarato e ossessivo di “rivelare” al maggior numero possibile di persone l’ipotetica esistenza di un sistema occulto e misconosciuto che si muoverebbe a livello globale per organizzare i flussi di notizie e far passare all’opinione pubblica solo alcune informazioni, condizionandone i comportamenti e limitandone di conseguenza la libertà. Questo modello è falso e culturalmente deleterio, e fonda le sue radici politiche nella “teoria del complotto” costruita a tavolino, diretta erede del modello che sta alla base dei Protocolli dei Savi Anziani di Sion (il testo antisemita che ha generato linguaggi che si sono riprodotti nell’ultimo secolo in numerosi e variegati esempi). Chi si occupa di fake news e compie quotidianamente un attento monitoraggio sulle dinamiche dell’antisemitismo e della sua diffusione nel mondo dell’informazione lavora con decisione per smascherare il legame necessario e indissolubile fra questi meccanismi. Chi fa del complottismo – siano uomini politici o direttori di testate giornalistiche – alimenta giocoforza l’antisemitismo.
L’idea del complotto è semplicemente sbagliata, oltre ad essere profondamente diseducativa. Dare la colpa a ipotetici poteri forti che manipolerebbero l’informazione significa rinunciare alla pratica necessaria e democratica di cercare le notizie, verificarle nella loro autenticità e diffonderle in piena libertà. Significa scaricare su ipotetici manipolatori la responsabilità di dinamiche sulle quali tutti noi siamo perfettamente liberi di lavorare. Significa delegare a un misterioso e inconoscibile potere malevolo la responsabilità di quel che accade nella realtà che ci troviamo a vivere, bella o brutta che sia. Una responsabilità che prima di tutto ricade su ognuno di noi.
Gadi Luzzatto Voghera, direttore Fondazione Cdec – Pagine Ebraiche novembre 2018
(11 novembre 2018)