…Bund
“Megst zikh Zayn vos du bist: / a farbrenter tsionist, / a bundovets, vemen geit dos on?” (Tu puoi esser quel che vuoi: un sionista appassionato, un bundista, che importanza ha?), dice la ragazza all’amato Leybke in una canzone di successo del poeta yiddish Mordechaj Gebirtig, intitolata “Kum, Leybke, tantsn”, “Su, Leybke, danza”. “Sono solo punti di vista”, continua la protagonista, qualsiasi siano le tue idee, “tantsn tango un tsharleston” (“balla il tango e il charleston”).
Nella Polonia degli anni trenta il Bund, Unione generale dei lavoratori ebrei, aveva circa 100.000 iscritti, mentre il sionismo guadagnava anno dopo anno consensi crescenti, complice di fatto l’antisemitismo dilagante in tutta Europa. Il confronto tra le due organizzazioni era a dir poco acceso. L’assassinio sistematico degli ebrei europei porterà in poco tempo alla fine della cultura yiddish in Europa orientale, almeno come cultura di massa e, tra il pogrom di Kielce (4 luglio 1946) e l’instaurazione della dittatura comunista (gennaio 1949) all’emigrazione in Israele della maggior parte degli ebrei polacchi sopravvissuti. Ancora negli anni della Shoah, tuttavia, il Bund gioca un ruolo pari a quello dei sionisti nella resistenza ebraica. Quando il 19 aprile 1943 insorge il ghetto di Varsavia, bundisti e sionisti combattono fianco a fianco contro gli sterminatori: una scelta non scontata, considerando la lunga e aspra rivalità tra i due movimenti. Il leader bundista Marek Edelman, che ha raccontato dell’insurrezione nell’accorato volume Il ghetto di Varsavia lotta (Giuntina) a fianco del sionista Mordechai Anielewicz.
Giovedì scorso, quando ho scritto su queste colonne a proposito dei saggi contenuti nel recente volume Bundist Legacy After the Second World War (Brill 2018), ho evitato di affrontare il discorso su cui si concentra l’ultimo capitolo, ovvero la storia della storiografia del Bund in Israele. A Gerusalemme e Tel Aviv viene a lungo minimizzato il ruolo del movimento che aveva rivaleggiato alla pari con il sionismo tra le due guerre e, addirittura, era ben più diffuso e radicato di quest’ultimo prima del 1918. Un parziale recupero della storia e dell’eredità del Bund si ha in Israele a partire dagli anni settanta, quelli del realismo dopo l’ubriacatura del 1967.
Un discorso diverso va fatto per il curriculum scolastico, i musei, i riti identitari collettivi e le dichiarazioni dei politici, che ancora oggi disconoscono e censurano pressoché totalmente il ruolo storico del Bund. Lo studio della storia ebraica, nelle scuole israeliane, segue in linea di massima due percorsi: il primo mette a tema la Shoah, il secondo il sionismo e lo stato di Israele. È sicuramente molto più che discutibile una proposta educativa che fa perno su una lettura della vita ebraica nella diaspora come prodromo alla Shoah, interpretata a propria volta arbitrariamente come compendio di una storia precedente fatta esclusivamente di antisemitismo e persecuzioni. Ancora più scorretto è il passaggio come se niente fosse, nei libri di scuola, da un ebraismo ottocentesco che, soprattutto in Europa orientale, è espressione di un’identità innanzitutto religiosa, al sionismo, saltando a piedi pari le esperienze intermedie che hanno coinvolto in massa il popolo ebraico, dall’occidentalizzazione all’integrazione e assimilazione nelle società europee, dal socialismo al bundismo. Inquietante, infine, il nesso dalle forti venature messianiche instaurato tra la distruzione dell’ebraismo europeo e la nascita di Israele, che sembra avallare uno schema deterministico e teologico. Quale spazio rimane al Bund all’interno di questa cornice? Sostanzialmente nessuno. Le celebrazioni dell’insurrezione del ghetto di Varsavia ricordano Mordechai Anielewicz, dimenticano Marek Edelman. La storia non solo viene scritta, ma spesso anche cancellata dai vincitori.
Giorgio Berruto