Razzismo e antisemitismo

baldacciNelle numerose iniziative che sono state promosse, soprattutto nell’ultima parte del 2018, in particolare da numerose Amministrazioni comunali, per ricordare l’80° anniversario delle leggi razziali, si è spesso sostenuta la tesi secondo la quale, contrariamente a quanto ricordavano le vittime della persecuzione e contrariamente ad un’opinione largamente diffusa anche fuori del mondo ebraico, quelle leggi non erano state un «fulmine» improvviso, bensì il punto di arrivo di un processo caratterizzato da una forte continuità, un processo che inizia con le misure prese in occasione della guerra d’Etiopia del 1935-1936, intese a evitare ogni promiscuità con la popolazione locale e a punire chi di questa promiscuità si fosse reso autore. Il razzismo che caratterizza i provvedimenti presi in occasione della guerra di Etiopia e il razzismo che sta alla base delle leggi antiebraiche del 1938 sarebbero perciò – secondo questa tesi – non solo in continuità l’uno rispetto all’altro, sarebbero due espressioni di una medesima ispirazione razzista. Pertanto l’antisemitismo altro non sarebbe che un caso particolare, da far rientrare nella più generale categoria del razzismo che caratterizza la storia europea, non solo del XX secolo.
Da questa impostazione discende una conseguenza per il presente: oggi ci si deve battere contro il razzismo in generale, in particolare contro quello particolarmente visibile, quello contro gli immigrati di origine africana, mentre l’antisemitismo, pur deprecato, finisce per restare in ombra.
Questa tesi appare discutibile sul piano storico, e di conseguenza discutibili sono anche le conseguenze che se ne vogliono trarre per il presente.
Sul piano storico, bisogna ricordare che le misure discriminatorie contro le popolazioni locali – in particolare, ma non solo, quelle africane – sono una caratteristica del colonialismo e sono state adottate, in tutti i tempi e in particolare a partire dal XIX secolo, da tutti i Paesi che avevano domini coloniali, anche se in misura e in forme diverse. Non esiste in questo campo una specificità fascista che la distingue da quanto fatto dagli altri Paesi europei che possedevano colonie in Africa o altrove. Alla base di queste misure stava fondamentalmente la convinzione che si trattava di popolazioni che si trovavano a uno stadio inferiore di civiltà, che erano costituzionalmente inferiori alle popolazioni bianche, che nei loro confronti si doveva nutrire soprattutto del disprezzo per le loro usanze barbare e che pertanto dovevano essere tenute separate dalle popolazioni di origine europea.
L’antisemitismo – compreso quello che sta alla base delle leggi del 1938 – ha tutt’altra storia. Non solo non ha niente a che fare con il colonialismo, ma, come sappiamo bene, accompagna il cristianesimo fin dal II secolo, con l’accusa rivolta agli ebrei di essere il popolo deicida, accusa che si è perpetuata fino ai nostri tempi e che solo da qualche decennio è stata cancellata dalla Chiesa cattolica. Tutta la storia dell’antisemitismo è stata caratterizzata da questo segno, quello dell’accusa contro la “razza maledetta” che aveva ucciso l’Uomo-Dio e che quindi era capace di ogni nefandezza. Fin dal suo sorgere l’antisemitismo è stato caratterizzato, soprattutto a livello popolare, non dal disprezzo ma dall’odio e dalla paura degli ebrei, una paura che poi si è evoluta e ha preso varie forme nel corso del XIX e del XX secolo: le accuse maggiormente ricorrenti contro gli ebrei sono state quelle di costituire una sorta di Internazionale legata da vincoli inconfessabili, di complottare contro ogni autorità, di accumulare ricchezze estorte con l’usura e con qualsiasi altro mezzo. Ciò che ha caratterizzato l’antisemitismo moderno non è stato il disprezzo nei confronti degli ebrei, ma la paura, la paura di una potenza che veniva descritta in termini tanto temibili quanto vaghi e che si innestava bene sul vecchio tronco dell’antisemitismo di origine religiosa.
L’antisemitismo di origine biologica – che sottolinea negli ebrei caratteristiche diverse e inferiori – si diffonde solo con il positivismo ma resta sempre marginale rispetto al sentimento popolare. Anche l’antisemitismo che si ingrossa a cavallo tra XIX e XX secolo – dal moltiplicarsi dei pogrom nei territori dall’Impero russo all’affare Dreyfus in Francia – non ha alla base un razzismo biologico: sono motivazioni sociali e politiche quelle che spingono verso l’odio contro gli ebrei, sono le loro (presunte) ricchezze, le loro (presunte) trame, i loro (presunti) tradimenti, non certo le teorie biologiche che pure hanno un certa fortuna nel mondo degli studi di scienze naturali di quel periodo.
Il razzismo biologico – al quale sembrerebbero ispirarsi le leggi italiane del 1938 – ha un seguito a livello di massa solo con la diffusione delle teorie hitleriane e poi con la conquista del potere da parte del nazismo, con le tragiche conseguenze che ne seguirono.
Le leggi italiane del 1938 si ispirarono esclusivamente alle teorie del razzismo biologico? Se ci riferiamo al “Manifesto degli scienziati razzisti” del 14 luglio 1938 o alla “Dichiarazione sulla razza” del Gran Consiglio del Fascismo del 6 ottobre 1938, apparentemente sì. Ma se si entra nel merito di quanto disposto dalle singole norme, allora questa certezza traballa. Il R.D.L. n. 1728 del 17/11/1938, che trasformava in norme giuridiche le indicazioni politiche del Gran Consiglio, già nell’art. 8, che definiva chi era ebreo, mostrava delle incrinature rispetto a una definizione puramente biologica. Ma è l’art. 14 che mette in chiara evidenza come la presunta base biologica – l’appartenenza alla “razza” – comportasse tali e tante eccezioni che mettevano in evidenza il carattere eminentemente politico del provvedimento. Che cosa aveva a che fare con la “razza” il fatto di essere stato ferito o aver ricevuto una decorazione in guerra, di far parte di una famiglia di un caduto, di essere stato ferito per “causa fascista”, di essersi iscritto al Partito Fascista in determinati periodi e in particolare in quello immediatamente successivo al delitto Matteotti, di essere stato volontario fiumano e via di questo passo, fino a giungere all’ineffabile punto 6 di detto articolo, nel quale, al di là dei casi previsti, si dichiarava che le leggi razziali non erano applicabili quando gli interessati “abbiano acquisito particolari benemerenze”, valutate da un Commissione costituita presso il Ministero dell’Interno? In altre parole, si è ebreo o non ebreo – cioè si è sottoposti alle leggi discriminatorie oppure no – sulla base di una valutazione politica, che con la “razza” e con la biologia non ha niente a che fare.
Come si vede, non c’è alcuna continuità di tipo “razziale” (biologico) tra la legislazione coloniale del 1935 e le leggi antisemite del 1938, che sono invece due decisioni di tipo politico, ben distinte tra loro. Non esiste allora alcun rapporto tra i due momenti? In realtà il rapporto c’è, ed è stato ben messo in luce da Claudio Vercelli nel suo recente “1938. Francamente razzisti”. Esso è costituito dalla “ricerca di un’opportunità che Mussolini voleva cogliere per intero: trovare un elemento di galvanizzazione sul quale riallineare gli italiani, per chiamarli ai compiti di una politica totalitaria”. Questo aspetto vale sia per le leggi del 1938 che per la guerra di Etiopia: entrambe sono comprensibili nell’ottica della costruzione dello Stato totalitario di cui l’«uomo nuovo» fascista doveva essere il pilastro. Questo, e solo questo, è ciò che lega i due momenti, non certo una pretesa continuità “razziale”.
Questa distinzione tra il razzismo nei confronti degli africani e l’antisemitismo non è solo un fatto storico: ha conseguenze anche sul presente. Chi nega all’antisemitismo una sua specificità tende a inserirlo nella categoria generale del razzismo, con la conseguenza di considerare prioritaria solo la lotta contro quella forma di razzismo che appare più evidente, quella nei confronti degli immigrati, specie se di origine africana. Anzi, si arriva all’apparente paradosso che una parte di chi si batte contro il razzismo verso gli africani è al tempo stesso fautore di un antisionismo che altro non è che la forma contemporanea dell’antisemitismo.
Si è in generale trascurato che – accanto all’antisemitismo che ha caratterizzato l’Europa cristiana nel corso di quasi due millenni – nei Paesi islamici si era sviluppata un’altra forma di antisemitismo, basata, come aveva messo in evidenza più di venti anni fa Bernard Lewis e come di recente hanno riproposto i lavori di Georges Bensoussan e di Vittorio Robiati Bendaud, sull’istituto della «dhimma», che faceva degli ebrei (e dei cristiani) dei «dhimmi», cioè delle persone considerate inferiori, esposte al disprezzo e alla violenza. Il processo che ha portato a far nascere in una terra che era stata conquistata dall’Islam lo Stato d’Israele, lo Stato degli ebrei, si è innestato su quella tradizione antisemita, ha provocato una reazione nel mondo islamico che si è manifestato non solo in un atteggiamento di totale rigetto di questa nuova realtà e nel progetto di distruggerla, ma anche nella diffusione di forme di radicale antisemitismo che hanno portato alla scomparsa quasi totale degli ebrei dai Paesi islamici. Se i conflitti militari tra lo Stato d’Israele e gli Stati arabo-islamici si sono sempre conclusi con la vittoria del primo, evitando così la sua distruzione, non hanno impedito che nel mondo islamico l’odio contro lo Stato degli ebrei continuasse e anzi si radicalizzasse. Anzi, il fenomeno dell’emigrazione di massa in Europa ha fatto sì che questo odio si trasferisse anche in terra europea, dando luogo non solo ai casi di terrorismo ben conosciuti, ma anche ad un nuovo antisemitismo strisciante, diffuso in particolare in Francia, in Belgio e nei Paesi scandinavi.
Da queste riflessioni non nasce solo l’invito a non strumentalizzare la storia. Scaturisce anche l’esigenza di non agire a senso unico e di combattere non solo il razzismo nei confronti degli immigrati africani, ma anche, con uguale determinazione, quello contro gli ebrei che sono ancora presenti in Europa e in altre parti del mondo e quello contro gli ebrei che hanno costruito il proprio Stato in Israele.

Valentino Baldacci

(17 gennaio 2019)