JCiak – I bambini di rue Saint-Maur 209
Al numero 209 di rue Saint-Maur, a Parigi, abitano trecento persone. Un terzo di loro, dice il censimento del 1936, è ebreo. Sono polacchi, italiani, romeni, rifugiatisi in Francia per scampare alla persecuzione antisemita. Il loro mondo, ricostruito con tanto dolore e fatica, crolla la notte del 16 luglio 1942, quando inizia la retata del Vélodrome d’hiver e la milizia francese bussa alle porte. La loro storia torna a noi nel bellissimo I bambini di Rue Saint Maur 209, diretto da Ruth Zylberman, oggi nelle sale per il Giorno della Memoria. Riannodando il filo di quel passato, la regista ha rintracciato i vecchi inquilini del palazzo a Parigi, New York, Tel Aviv, Melbourne e li ha accompagnati nei luoghi dell’infanzia per ridare voce e volti a una minuscola comunità spezzata dalla Shoah.
Prima di iniziare la ricerca, durata parecchi anni, la regista non sapeva niente di rue Saint-Maur 209. E nulla, all’apparenza, indicava che questo anonimo palazzo a due passi dall’Ose – l’Oevre secours aux enfants che ha messo in salvo alcuni dei bambini che lì vivevano – avesse rappresentato per tante famiglie di ebrei l’illusione di un porto sicuro nel montare della furia antisemita.
“Monitoravo da tempo le strade del nord-est di Parigi, antiche terre di immigrazione per molti ebrei dell’Europa centrale”, spiega la regista. “E’ stato scoprendo il censimento del 1936 che mi sono accorta che un terzo dei trecento abitanti del 209 erano ebrei. Dei 52 deportati, nove erano bambini. Col suo cortile e i suoi quattro blocchi, questo edificio permetteva inoltre di moltiplicare i punti di vista e di fare spazio al presente”.
Con una minuziosa ricerca d’archivio e l’aiuto di alcuni storici, Ruth Zylberman ricostruisce la vita dell’edificio negli anni Trenta – dalle piante degli appartamenti agli inquilini alle condizioni di vita. Poi rintraccia i sopravvissuti, tutti ormai anziani, e li riporta lì perché nell’emozione dei luoghi ritrovino il ritmo e il sapore dell’infanzia travolta dalla violenza.
Con l’aiuto di mobili da bambola, i testimoni descrivono la disposizione degli alloggi e le abitudini di allora. All’incrocio fra passato e presente, riprendono vita i Baum, i Diamant e i loro sei figli di cui solo Odette è sopravvissuta, i Kocolinsky, i Cordier, i Rolider, i Fuchs, i Goura, i tre fratelli Goldszstajn e tanti altri.
Tornano le stelle gialle, imposte anche ai bambini; il divieto di andare ai giardini o in piscina; la deportazione nel 1941 degli uomini stranieri nei campi di Pithiviers e Beaune-la-Rolande; l’arianizzazione della drogheria degli Hainovici e delle macchine da cucire. René Goldszstajn, che al tempo della retata ha 19 mesi, racconta di essersi salvato perché sua madre l’ha lanciato fra le braccia della portinaia Madame Massacré.
Henri Osman, cinque anni, invece ce la fa perché prima della retata i genitori lo affidano a un’organizzazione ebraica clandestina. Dopo essere stato accolto da cinque famiglie, è emigrato negli Stati Uniti dove si è rifatto una vita.
Jeanine Dinanceau ricorda il padre, che fino alla Liberazione nasconde la piccola Thérèse e i suoi genitori in un camerino di sei metri quadri. Per mettere a tacere il figlio, impiegato nella Légion des volontaires français, lo minaccia di una coltellata se denuncia gli inquilini ebrei.
Molti ricordano la Muta, che non potendo parlare denuncia gli ebrei scampati alla retata elencando i loro nomi per iscritti. E tutti serbano un’affettuosa memoria di un altro inquilino, l’ispettore Migeon, che prima della retata bussa alle porte di molte famiglie per avvisarle dell’arrivo dei colleghi. Odette Diamant non riesce invece a scordare il padre, che le ripeteva “Non avere paura, vivremo, vedremo”.
Storie, voci, ricordi. Il passato torna in un vortice così denso di vita e dolore da levare il fiato. E guardando il volto pieno di rughe dei testimoni l’urgenza della Memoria si fa ancora più pressante.
Daniela Gross