Machshevet Israel – Popolo, collettività e Stato
La presentazione del libro di Hana Kasher Elion al kol ha-goim (Idra 2018 ) a Bar Ilan, cui facevo riferimento in uno scorso intervento, è stata l’occasione per discutere del tema della distinzione di Israel (e quindi delle nozioni fornite dalla Tradizione a riguardo) da due differenti punti di vista: uno inerente le fonti, l’altro l’attualità. Per quanto riguarda le prime uno degli interventi metteva in evidenza come Maimonide stesso si sarebbe trovato in “difficoltà emotiva” nel coniugare l’universale dello sekhel (aspetto aristotelico) rispetto alla distinzione tra Am Israel e gli altri popoli. Ed è forse in nome di questa parità di intelletto che avrebbe – stando all’intervento – spiegato la condizione del brith non già come dovuta a una scelta da parte del Signore bensì come merito di Abramo di aver scelto la via di questi. Alla nozione di popolo e di patto si scoprirebbe, anteposta, quella di libera scelta da parte dell’uomo. Tuttavia l’Autrice metteva in evidenza, nelle sue conclusioni, come Maimonide spiegasse la necessità che il futuro re di Israele non sia discendente di convertiti (una distinzione che si ritrova per la nevuà, la capacità profetica, e che fa da contraltare a quanto detto circa l’ascendenza davidica) sulla base dell’argomento secondo cui è preferibile che Re e popolo si immedesimino, garantendo così l’unità della collettività. A interessare è che in questo argomento si coglie l’aspetto deterministico presente – non fosse che a livello meramente ipotetico – nella nozione di popolo. Un altro intervento, invece, indicava le declinazioni politiche a cui l’interpretazione di determinate nozioni (tra le quali, ma non unicamente, quella di ‘elout’) può dare adito. In particolare nell’intervento veniva fatto riferimento a quei gruppi che, in un’ottica ormai postsionista, fanno della propria interpretazione delle fonti il criterio normativo primo e ultimo, ossia in più o meno esplicita contrapposizione alla legge secolare dello stato di Israele. Nell’intervento veniva quindi chiesto se, per arginare tali declinazioni, l’halakhà non sia nelle condizioni di recepire nozioni affermate nell’ambito, per esempio, del diritto internazionale, quale quella di diritti umani e così via. La risposta a tale quesito riguarda chi dell’Halakhà, e della meta-halakhà, fa il proprio mestiere – anche se l’autore dell’intervento non nascondeva la propria simpatia verso correnti differenti da quella cosiddetta ortodossa. A rilevare, a mio avviso, è che la questione gravitante attorno alla distinzione venga posta non più sul piano speculativo bensì su quello materiale, ossia culturale e politico – nella misura in cui vi è chi, in base a determinate letture delle fonti, agirà in questa o quella maniera. Tale passaggio non è casuale e, a ben leggere, proprio quanto veniva ricordato da Maimonide lo segnala: fonti e successivo diritto ebraico intersecano il piano metafisico con quello del ‘dover essere’, dell’organizzazione della vita della collettività. Se è incontrovertibile che la stessa nozione di popolo ebraico passa per i due punti toccati da Maimonide (la scelta di Avraham e di chi scelga, per ghiur, di ripercorrerne, in ogni generazione i passi; il mero fatto di nascere all’interno di un popolo) resta nell’Israele contemporanea la necessità, a prescindere dalle possibili letture interne all’economia di pensiero ebraico (accennavo nello scorso intervento la lettura di Leibowitch in merito) di individuare le linee di demarcazione, ancorché su modelli differenti da quello franco-europeo, tra ciò che è la collettività di Israel e ciò che è lo stato di Israele. Infatti, per parafrasare Maimonide, il Re non è (ancora) tornato.
Cosimo Nicolini Coen