Alterità e alterazione
Perché contro gli ebrei e non nei confronti degli “altri”? Dopo avere spiegato la traiettoria della storia nostrana – che trascinò l’Italia intera, in un drammatico susseguirsi di radicalizzazioni, verso il razzismo di Stato prima, la legislazione antisemitica poi, la sua applicazione, le discriminazioni e le persecuzioni successivamente, fino all’annientamento delle vite durante l’occupazione nazista della parte di Penisola non liberata – la domanda viene formulata dal pubblico con la naturalità di chi chiede un legittimo supplemento di conoscenza. Poiché se è perlopiù accetto il fatto che l’ebraismo italiano, allora come oggi, costituisca parte integrante del tessuto nazionale, di cui ne è per più aspetti fedele specchio, è allora difficile, per il comune interlocutore, comprendere l’accanirsi del fascismo contro una minoranza di italiani che raccoglie in sé più aspetti dell’identità della maggioranza dei connazionali (ma non necessariamente vale l’inverso). Ed allora, occorre per davvero entrare dentro la logica dell’antisemitismo di Stato per riuscire a formulare una risposta decente e, quindi, credibile. In nessun caso gli ebrei furono colpiti per la loro “specificità”: il discorso sul razzismo come odio per il “diverso” qui funziona assai poco se non nulla. In quanto il razzismo si esercita sempre contro un sembiante identitario, una costruzione ideologica e non con la nuda vita delle persone, ossia la loro umanità. Così come è di scarso concorso lo stabilire acriticamente un nesso diretto e consequenziale tra il razzismo coloniale e quello “in casa” del 1938. Senz’altro il primo socializzò, tra gli italiani, l’abitudine a deumanizzare coloro che, di volta in volta, venivano additati a bersaglio polemico e ad oggetto di discriminazioni. Il pesante caricaturalismo con il quale si deformavano i tratti e la fisionomia delle vittime nasce dentro l’incubatore coloniale per poi trasfondersi nella pesante e greve vignettistica antigiudaica. Ma l’inquietante assonanza si ferma a ciò (il che non è comunque poco). In quanto l’antisemitismo contemporaneo, semmai, si qualifica come pregiudizio contro qualcuno (e qualcosa) di avvertito come così vicino da essere intollerabile non per le sue caratteristiche (reali o presunte) di alterità bensì per la sua natura di soggetto omologo. Agli ebrei, infatti, veniva contestato il “volere essere” al pari dei non ebrei, senza tuttavia averne le qualità “razziali”. Da ciò, quindi, l’accusa non di essere portatori di alterità bensì di alterazione: il fingersi come il resto della collettività era il vero “inganno” che doveva essere invece smascherato dal regime. Perché facendo altrimenti, l’ebraismo avrebbe invece sporcato la razza superiore, ibridandola e contaminandola. Non di meno, ed è un secondo passaggio fondamentale del dispositivo antisemitico, il colpire una minoranza nazionale fortemente integrata, parte attiva nel processo di unificazione identitaria del Paese nel corso dell’Ottocento e del Novecento, implicava l’intervenire pesantemente sulla stessa identità degli italiani, per disporli verso nuovi orizzonti. In altre parole: dopo il 1938, e l’avvio dei processi di esclusione istituzionalizzata, arrivò il 1940, con l’ingresso in guerra dell’intero Paese. Colpire la minoranza “troppo uguale” implicava il lanciare un chiaro messaggio alla maggioranza degli identici, quelli che dovevano aderire supinamente ai cliché del fascismo regime: è ora che vi prepariate a nuove prove, evitando esercizi di gratuito e pavido “pietismo”. Così si diceva allora riguardo ai perplessi, coloro che sia pure flebilmente tentarono di articolare un pensiero un poco differente da quello dominante. La stragande parte restante era peraltro già intruppata verso mete abissali. L’antisemitismo di Stato fu il collante di questi processi collettivi, sradicando ciò che restava del diritto alla “differenza”, sostituito dalla diffidenza sistematica, e contrapponendo al pluralismo residuo l’omologazione al passo delle oche. Puntualmente spennate, nel momento in cui i nodi sarebbero venuti al pettine.
Claudio Vercelli