…hummus

Quante volte mi è capitato, parlando con israeliani – amici di vecchia data oppure conosciuti da pochi minuti non fa differenza – che mi venisse chiesto a un certo punto di nominare il migliore hummus di Israele. Si noti: non il mio preferito, bensì semplicemente il migliore.
A volte mi è capitato di dare la risposta giusta, cioè quella attesa. Pochi mesi fa, per esempio, chi mi interrogava ha risposto con una pacca sulla spalla e un “bravo, bravo” quando ho indicato Abu Hassan, un minuscolo locale di Yafo che riconosci dalla lunga coda di affamati telavivers in attesa fuori da metà mattina circa e fino a quando – così vuole la leggenda – il paiolo dello chef è vuoto, di solito non molto oltre mezzogiorno. Quando arriva il tuo turno devi spicciarti a ripulire il piatto alla svelta a colpi di pita e cipolla cruda mentre chi è ancora in coda allunga occhiate impazienti e i camerieri non vedono l’ora di farti sgombrare e servire i nuovi clienti. Detto per inciso, è un peccato dover ingurgitare in quattro e quattr’otto quel nettare cremoso ma l’esperienza è di quelle che non si scordano.
Ma naturalmente le cose non vanno sempre così lisce. Una volta qualche anno fa, per esempio, la mia solita risposta – “Abu Hassan a Yafo!” – aveva suscitato la reazione sdegnata di un tale che era certo che il miglior hummus di Israele fosse quello di Hummus Said, nella città vecchia di Akko. Guarda caso, il mio interlocutore veniva proprio da Akko, ma devo ammettere che quando in seguito ho assaggiato le prelibatezze del signor Said ho incontrato una coppia di Tel Aviv che, convinta che i suoi intrugli siano imbattibili, quando può si fa una bella corsa in auto fino ad Akko per pranzare e poi torna indietro. Non è proprio sotto casa ma per Said questo e altro.
Non che questa disparità di vedute sull’hummus stupisca molto, in un paese dove si litiga sostanzialmente su tutto con una discreta furia. Quasi tutti quelli con cui ho parlato in questi anni, in compenso, sono d’accordo su una cosa: l’hummus migliore è quello dei ristoranti arabi (va da sé che la parola “ristorante” non renda giustizia alle bettole claustrofobiche di Abu Hassan e colleghi). È comunque verosimile che le nonne di Ben Gurion, Jabotinski e Golda Meir non avessero mai sentito nominare la magnifica poltiglia di ceci, che è invece un simbolo del Medio oriente dall’Eufrate al Mediterraneo.
In tempi in cui, anche in un paese multietnico e dalla società stratificata come Israele, un numero crescente di persone vive nella tribù di cui si sente parte e guarda con diffidenza e scarsa conoscenza le altre tribù, una scodella di hummus, che non è esclusivamente arabo ma certamente non è neanche solo israeliano e tanto meno ebraico (chiediamo alla nonna di Ben Gurion?), può assumere significati molto diversi. Può permettere di vedere l’Altro da vicino, oppure cacciarlo via dalla mensa comune attraverso l’appropriazione del piatto, della sua geografia e della sua storia, rinunciando così alla condivisione della magnifica, morbida crema.

Giorgio Berruto

(28 febbraio 2019)