La parola antisemitismo
In qualche sede, e segnatamente nei mass media, si diffonde l’idea che “la parola antisemitismo, che è terribile se si pensa al passato degli ebrei europei, massacrati per secoli, oggi si è evoluta perché gli ebrei fuori di Israele, non condannano Israele. Israele si dice rappresentante di tutti gli ebrei del mondo e allora e allora e fa delle cose atroci. Bisogna tenere conto, tenere conto di questo”.
Quindi, se gli ebrei condannassero Israele non esisterebbe l’antisemitismo; viceversa, se non lo condannassero l’antisemitismo sarebbe inevitabile, perché “Israele fa cose atroci”.
Finora, si era disquisito di antisionismo, perché l’antisemitismo rientra nei divieti di legge. Ora, invece, si chiama in causa l’antisemitismo, collegandolo alla condotta di Israele. Non interessa qui controbattere, perché ciò è già stato fatto, anche su queste pagine, e in modo autorevole.
Questo coinvolgimento, invece, riguarda gli ebrei che pensavano di poter vivere tranquilli, senza subire i contraccolpi del conflitto mediorientale. Oppure, coloro i quali si erano preoccupati finora per le etichette del vino con l’immagine di Benito Mussolini. Invece, qui antisionismo e antisemitismo si rivelano inestricabilmente legati e collegati.
Certo, la rimozione delle bruttezze è stata disvelata da Giulio Cesare un poco prima di Sigmund Freud: Homines id quod volunt credunt, ossia, gli uomini credono in ciò che desiderano sia vero. A giudicare dagli eventi, molti ebrei continueranno a vivere nel loro mondo dorato, a dimostrazione di quanto abbia ragione Ernesto Galli della Loggia quando dice di preferire la storia alla memoria, perché la storia aiuta (se non addirittura impone) il ricorso al ragionamento.
Emanuele Calò, giurista
(5 marzo 2019)