Errori e caos, il senso della vita

“Perché i film siano folli, caotici, disperati e bellissimi come la vita spesso manca loro un elemento, che secondo me è fondamentale. Cerchiamo sempre di fare film che alla fine siano molto ordinati, corretti, in un certo senso, e puliti. Ma la vita non è così. Nelle cose che vediamo al cinema non ci sono gli errori. È questo è, in sé, un errore”.
Esordisce così, Nadav Lapid, il regista israeliano che ha conquistato di forza il Festival internazionale del cinema di Berlino, vincendo con il suo “Synonymes” il premio più prestigioso. Un Orso d’oro che ha portato a qualche prevedibile polemica: è un film difficile, irritante, anche doloroso. Per alcuni una scelta sbagliata, nonostante il film una coproduzione fra Francia, Germania e Israele abbia vinto anche il premio della Fédération Internationale de la Presse Cinématographique.
“Mi hanno chiesto in molti se è un film autobiografico ha continuato Lapid e non so neppure se ha senso rispondere: è noto che sono israeliano, e che una parte importante della mia vita è in Francia. Ho fatto il servizio militare in Israele, ovviamente, in una piccola base vicina alla frontiera. Poi, improvvisamente, alla fine del servizio militare mi sono ritrovato a casa. è normale. Ma è proprio in quella normalità che nascono i mostri, no? Il mio demone israeliano l’ho lasciato crescere per un anno intero: mi sono iscritto all’università, ho studiato filosofia, ho trovato un lavoro… ma a un certo punto ho sentito che dovevo scappare.
Dieci giorni dopo sono arrivato a Parigi. Non avevo nulla tranne un enorme desiderio di essere francese, di smettere di essere israeliano. Ma io sapevo che Israele era dentro di me. è vero che sognavo di poter arrivare un giorno, magari, a leggere del mio Paese in un giornale e di scoprirmi indifferente. Ma non è mai successo. E poi l’odio è l’altra faccia dell’amore”.
Lasciare indietro il proprio paese del resto, spiega Lapid, è impossibile come è impossibile fare a meno di se stessi, e in particolare del proprio corpo: “Yoav, il personaggio del film, ha un corpo statuario, molto mascolino. Contiene in un certo senso tutto quello che non può, non riesce a cancellare: non serve congelare quasi a morte inevitabile pensare alla morte di Marat vedendolo nudo, abbandonato immobile nella vasca -, lasciarsi morire di fame. non serve neppure prostituire il proprio corpo. È inutile.
L’identità è fatta anche di questo. Rinunciare alla propria lingua, alle proprie parole, è una scelta fortissima. Ma non funziona. Non basta”.
Tom Mercier, il bravissimo interprete, israeliano, ha imparato il francese appositamente per le riprese, e porta in dote a Lapid quel corpo con cui gli spettatori si trovano a fare i conti sin dalle primissime scene: arrivato a Parigi, entra in un bellissimo e gelido appartamento parigino, completamente vuoto. Mentre cerca di scaldarsi sotto la doccia qualcuno gli ruba assolutamente tutto, e la sua corsa folle lo porta da una stanza all’altra, avanti e indietro e poi giù fino in strada, completamente nudo. Ma è troppo tardi. “Ho voluto una figura del genere proprio per evitare che potesse farci pena. Yoav è un debole, un miserabile, in fondo. Ma ha un corpo, una fisicità prepotente che impedisce qualsiasi empatia. Mette a disagio”, ha spiegato il regista.
In molti hanno sottolineato come rappresenti perfettamente il paese da cui sia l’interprete che il regista hanno cercato di fuggire, in un un simbolo di prepotente virilità.
“è una trappola, una gabbia spiega ancora Lapid di cui è impossibile liberarsi”. Non avendo più nulla è costretto a rinascere, ripartendo da ancora meno di quel poco che si era portato dietro. I due giovani francesi che lo salvano dal congelamento, lo ospitano, lo aiutano, ma donandogli soldi e vestiti gli impongono un segno distintivo che lo accompagnerà sino alla fine del film, marchiandolo in qualche modo come diverso. È un cappotto color senape – un omaggio a quello indossato da Marlon Brando in Ultimo tango a Parigi? – a rendere la sua presenza per le strade della città ancora più evidente. Cammina per le strade ripetendo parole nella lingua del paese in cui cerca di integrarsi, continuamente, un borbottio che a volte è imprecazione, a volte preghiera, o un lamento. “Le parole per me sono un materiale fondamentale. Sono musica, sono suono, sono tutto. Per Yoav è un piacere enorme dire cose orribili, ne assapora la musica, l’effetto, le assonanze. L’atto stesso di parlare può essere rivoluzionario. la scelta di non rinunciare alla propria lingua è fortissima. Imparare una lingua è imparare un Paese, appropriarsi dei suoi mondi nascosti”. Ma le lezioni cui partecipa il giovane, microcosmi in cui sono concentrati gli sguardi di coloro che, giunti da tutto il mondo, cercano di diventare francesi, sono uno spaccato paradossale. Lezioni di cittadinanza che vorrebbero integrare ma diventano un confronto fra culture che è in verità uno scontro da cui non c’è modo di uscire vincenti.

Ada Treves, Pagine Ebraiche Marzo 2019