Diritti e discriminazioni
In molte società antiche si riteneva che il diritto di prendere decisioni sulle questioni importanti non dovesse appartenere a tutti ma solo ad alcune categorie di individui ritenuti migliori degli altri. Si è mai vista una cultura in cui consapevolmente e sistematicamente da millenni a questa parte si riserva il diritto di decidere a coloro che invece sono ritenuti peggiori? Può sembrare un paradosso, eppure ne esistono molte, e la cultura ebraica è certamente una di queste. Mi riferisco, naturalmente, alla distinzione tra uomini e donne: da una parte si afferma spesso e volentieri che le donne sono più sagge, più intelligenti, più equilibrate, più pacifiche, ecc.; dall’altra le donne sono sistematicamente escluse dalle stanze del potere. Ed è così oggi nell’ebraismo ortodosso, nel democratico Stato di Israele, in tanti Paesi democratici, nella democratica Italia, nelle nostre democratiche Comunità. Alcune decisioni essenziali per la nostra vita e il nostro futuro sono riservate ai rabbini, e i rabbini nell’ebraismo ortodosso sono solo uomini. Allora, delle due l’una: o si ritiene che i rabbini debbano avere solo un ruolo folcloristico e che le decisioni rilevanti debbano essere di esclusiva competenza degli organismi comunitari eletti da tutti gli iscritti maggiorenni (cosa che in realtà nessuno di noi pensa e che sarebbe contraria ai nostri statuti), oppure riconosciamo (come peraltro è inevitabile) che per l’ebraismo ortodosso i rabbini devono avere l’ultima parola in molti campi e allora non possiamo non ammettere che esiste un’oggettiva situazione di diseguaglianza. È illogico dichiarare che le donne non sono inferiori e al contempo considerare del tutto normale che le decisioni importanti in determinati campi debbano essere rigorosamente affidate agli uomini.
Eliminare le discriminazioni non è mai una cosa facile perché chi non le ha mai provate sulla propria pelle non sempre riesce a comprendere i disagi di chi le subisce. Come può, per esempio, un uomo ebreo sapere che cosa si prova a non poter andare a sefer nella propria Comunità, né oggi, né tra un anno, né tra cinque, né tra dieci? Ad essere presenti in un bet ha-keneset e non contare per nulla? A non poter seguire la tefillà da una posizione che consenta di vedere e sentire decentemente? Ad arrampicarsi per le scale di un matroneo a Neilà di Kippur dopo 25 ore di digiuno? Fortunatamente nel corso della storia prima o poi arriva qualcuno che pur non avendo mai provato certe discriminazioni sulla propria pelle comprende comunque la necessità di eliminarle: l’aristocratico che estende il diritto di voto a tutti i cittadini, il bianco che lotta per i diritti dei neri, il cattolico che si batte per l’apertura dei ghetti, il rabbino che prende decisioni alakhiche in favore delle donne. E dunque anche nel mondo ebraico ortodosso negli ultimi decenni sono stati fatti grandi passi avanti per quanto riguarda il ruolo della donna (ed è questa la ragione per cui, personalmente, ritengo che non sia necessario allontanarsi dall’ortodossia per sperare di vedere un giorno riconosciuti quei diritti che oggi ci sono negati). Quello che mi sconcerta è leggere su queste stesse colonne persone che certo scenderebbero in piazza se in Italia fosse negato il diritto di voto o qualche altro diritto a determinate categorie di cittadini che invece sembrano trovare perfettamente logico e normale difendere il perpetrarsi delle diseguaglianze all’interno del mondo ebraico. Mi pare molto pericoloso invocare la tradizione in difesa delle discriminazioni: la storia dell’umanità, in tutte le trazioni e culture, è in gran parte una storia di diseguaglianze e prevaricazioni, ma questa non è una buona ragione per mantenerle. Altrettanto pericoloso mi sembra parlare di ruoli paritari ma distinti: ricordo un mio compagno di liceo proveniente dal Sudafrica che con ragionamenti simili difendeva l’apartheid. Più pericolosa che mai mi pare infine l’accusa di provocazione rivolta a chi si permette di comportarsi come gli altri pur appartenendo a una categoria ritenuta diversa. “ … l’insolenza di questi ebrei è giunta a tal punto che si arrogano il diritto non solo di vivere in mezzo ai cristiani e in prossimità delle chiese senza alcuna distinzione nel vestire, ma che anzi prendono in affitto case nelle vie e piazze più nobili, acquistano e posseggono immobili …” (dalla bolla “Cum mimis absurdum” del 1555 con cui il papa Paolo IV istituiva il ghetto di Roma). Erano anche questi comportamenti provocatori?
Anna Segre