Senza se e senza ma

La riflessione di Valentino Baldacci pubblicata su queste colonne giovedì scorso e intitolata “Mondo islamico” presenta spunti di grande interesse e coinvolgimento, facendosi apprezzare per la sottile capacità di analisi e mettendo opportunamente in evidenza come la constatazione di una ricorrente freddezza degli ambienti musulmani rispetto alle tante vittime cristiane delle violenze jihadiste possa avere conseguenze sull’atteggiamento di una parte del mondo occidentale di fronte a terribili attentati anti-islamici come quello di Christchurch, fino a provocare distinguo e limitazioni nell’espressione di una condanna. Proprio la centralità del tema, legato ai fragili equilibri su cui si regge la convivenza nella nostra realtà interculturale, mi spinge a soffermarmi ancora sull’argomento.
Innanzitutto, non si può parlare in maniera generalizzata di indifferenza del mondo musulmano nei confronti del terrore islamista. All’interno di questa variegata realtà esistono esempi di chiara presa di coscienza e di vera e propria autoanalisi critica, anche a livello di comunità. Posso portare la testimonianza diretta di quanto avvenuto all’interno del Gruppo Insieme, che a Torino accomuna in iniziative volte all’integrazione realtà laiche, valdesi, ebraiche, islamiche, cattoliche: sono state in particolare le Moschee di Via Saluzzo e di Via Chivasso a contribuire con un auto-coinvolgimento basato su riferimenti precisi a pagine del Corano alla denuncia aperta dell’integralismo e della radicalizzazione identitaria capaci di portare alla scelta violenta.
Ma soprattutto, al di là dell’atteggiamento dell’Islam sul terrorismo, stiamo parlando di valori sociali e civili che rappresentano una precisa scelta dell’Occidente: pacifica convivenza, giustizia, democrazia quale sistema politico, cultura come strumento di rapporto reciproco tra mondi e storie differenti. Non è possibile di fronte a queste poste in gioco fare ambigui distinguo, dettare delle condizioni sulla base di “se” e di “ma”, chiedere o ventilare “ricompense” di appoggio in cambio di “riconoscimenti” all’altrui sofferenza, operare in vista di vantaggi individuali o di gruppo. Si tratta di una nostra scelta per quei valori in sé e per noi stessi, un orientamento di fondo che deve prescindere dalle eventuali o mancate risposte altrui: non ha senso percorrere una via che riteniamo giusta con chi ci pare giusto e procedere in altra direzione con chi ai nostri occhi non segue un retto percorso. Se ci comportassimo con ambiguità, condizionando il nostro atteggiamento al comportamento altrui, la giustizia diverrebbe interesse, cesserebbe di essere scelta di civiltà per trasformarsi in calcolo.
Ha ragione Baldacci quando chiama in causa il concetto di “equità”, un valore che per sussistere pienamente necessita di un comportamento uniforme da parte dei vari settori della società. La reciprocità, da cui l’equità realizzata emerge, rappresenta certo un bene comune; una condizione condivisa è di fatto un obiettivo da perseguire. Ma il discorso è molto più complesso di quanto un astratto codice di comportamento per i diversi gruppi potrebbe prevedere. Le differenze culturali e i conseguenti comportamenti difformi hanno radici profonde e antiche, non si eliminano facilmente per obbedire a un presunto modello comune; e ciò – oltre che una complicazione – è forse anche un bene, perché la varietà e la complessità degli apporti culturali rappresentano una ricchezza. Salvaguardando le radicate differenze, penso che occorra operare culturalmente e politicamente perché ovunque la violenza venga rigettata quale strumento per esprimere convinzioni e scelte. E’ un lavoro lento, difficile, parziale; ma obbligatorio.
Per perseguire questo obiettivo, l’Occidente non può che operare secondo i propri modelli culturali di convivenza: il berith biblico, cioè un patto sociale stipulato in nome di ideali etici superiori (in senso verticale – tra uomo e Dio – e in senso orizzontale – tra uomo e uomo), accanto al pactum unionis con cui Hobbes ritiene di poter scongiurare il bellum omnium contra omnes; l’umanesimo, capace di elaborare un concetto autonomo di valori propri del pensare e del sentire umano; l’illuminismo, che propone la guida di una ragione equilibrata e concreta, oltre il diritto cogente del più forte; in particolare l’idea della “pace perpetua”, formulata da Kant quale obiettivo transnazionale di natura cosmopolitica; l’ideale di tolleranza, base di apertura per l’accettazione dell’altro; il liberalismo, che coglie nell’individuo un centro inalienabile di diritti; la socialdemocrazia, tesa a coniugare i diritti del singolo con il benessere di un intero consesso sociale. Solo con l’aiuto di queste armi pacifiche tratte dalla sua storia, e senza tradirle con scorciatoie di puro utilitarismo, l’Occidente potrà isolare non l’Islam in sé, ma quella parte dell’Islam che si richiama alla violenza. Non prima, peraltro, di aver isolato anche i propri interni e come si vede ancora attivi focolai di violenza terrorista.
Se la reciprocità divenisse il criterio fondamentale del nostro modo di atteggiarci, finirebbe per affermarsi una tensione continua che sconfinerebbe spesso nell’uso della forza. Un clima del genere porterebbe inevitabilmente a una sconfessione di ogni modello civile/culturale e genererebbe danni evidenti sul piano dei rapporti con ogni società “diversa”.
La solidarietà con tutte le vittime, comunque e senza condizioni, non è dunque solo la conseguenza naturale di un orientamento sociale eticamente adeguato, ma rappresenta anche una scelta strategica contro la diffusione di una inquietante atmosfera di violenza.

David Sorani

(26 marzo 2019)