Machshevet Israel Pesach, compassione e autostima
La festa di Pesach, mentre celebra la liberazione dall’Egitto, contiene una potente riflessione sul senso di quel paradigmatico esilio. Si chiede Rav Joseph Soloveitchik: “Qual è la finalità del primo esilio del popolo ebraico? Unire dodici tribù in una nazione attraverso patimenti comuni. Sono entrati in Egitto divisi e ne sono usciti uniti; quell’esodo, inoltre, palesa in modo drammatico il coinvolgimento di Dio nella nascita del popolo ebraico”. Socio-politica la prima parte della risposta, teologica la seconda, ma inscindibili. Per il Rav di Boston i patimenti comuni sono un memento che insegna “la mitzwà della solidarietà e della simpatia per coloro che sono oppressi nella società”. E continua: “L’esperienza egiziana può essere intesa come la fonte di ispirazione morale per l’insegnamento della compassione, che tanto pervade la legislazione ebraica: ha reso più acuta la sensibilità etica e la coscienza morale (…) i nostri maestri vedono nella compassione una caratteristica distintiva del nostro popolo”. Ma in un’altra riflessione sull’Haggadà dice anche: “Lo scopo dell’esodo era quello di creare un ‘regno di sacerdoti e una nazione santa’”. E’ chiaro che il ricordo dell’uscita dall’Egitto (zeker litziat mitzraim) costituisce un monito sia per valori universali come la libertà, la compassione verso oppressi e vittime, l’autostima che porta al riscatto (e il riscatto che produce autostima) da una parte, sia dall’altra per valori particolari, o meglio nazionali. Universalismo e particolarismo – entrambi valori ebraici – trovano nel paradigma di Pesach giustificazione e spiegazione.
Nel suo fondamentale testo Ish ha-halakhà ancora Rav Soloveitchik riflette sul modo in cui Maimonide tratta la notte di Pesach ossia il rito del seder, sottolineando come il maestro medievale sembri astrarsi dal presente storico e immergersi nei riti del secondo Tempio: “Il seder di cui tratta Maimonide è un concetto ideale della notte pasquale e delle sue leggi, quasi ignorasse la dura realtà del presente. Davanti ai suoi occhi [nel XII secolo] si ergono le figure di Gerusalemme ricostruita, del Tempio restaurato, dei sacerdoti che compiono il loro servizio, e di Israele, popolo liberato, che si dà da fare per compiere i rituali della festa. E allorché si sveglia dal suo sogno ideale e dalla sua visione… l’oggi [l’oggi del XII secolo, ripeto] si presenta come al Rambam un’anomalia storica nel processo di compimento dell’halakhà ideale dentro la realtà”. Esilio come ‘anomalia storica’, a dispetto della sua lunga durata. Ecco un paradosso del pensiero del Rambam: l’halakhà contiene e custodisce la profezia che va oltre l’orizzonte della storia. Per questo nel Mishnè Torà (il suo autorevole codice halakhico) tratta anche di temi inattuali come i riti di purificazione e i sacrifici nel Tempio, temi che oggi chiameremmo ‘particolari’, espressioni di nazionalismo; e ciò senza che venga meno quella lettura universale della Torà – in chiave allegorico-metaforica – che occupa tutta la prima parte del Morè nevukhim, la Guida dei perplessi. Ancora, universalismo e particolarismo inseparabili.
Troviamo la stessa ‘morale della storia’ negli insegnamenti del Maharal di Praga, altro gigante del pensiero ebraico, nel quale – come si legge in Netzach Israel – si fa strada l’idea, in pieno XVI secolo, che ogni nazione ha il suo posto nel mondo, dunque anche Israele; ma come interpretare il fatto che oggi, nel XVI secolo appunto, Israele sia disperso e in esilio in ogni angolo della terra? La risposta è a sua volta profetica: la diaspora è un ‘segno’ della redenzione futura. Può voler dire: Israele sarà fatto tornare nella sua terra, nel luogo che gli compete e che è per natura suo; oppure Israele resta nel mondo perché (e finché?) quella redenzione si compia anche per le altre nazioni. Da qui la natura cosmopolita e sovra-nazionale della stessa nazione ebraica. Contraddizione? No, se si adotta la bifocalità a cui ci ha abituati Rav Soloveitchik: idealità e realtà, senza pretesa che i due foci coincidano o si fondano l’uno con l’altro. Proprio a partire dal Maharal di Praga, Rav Shagar introduce il concetto di ‘softer nationalism’, per definire quello ebracio come un nazionalismo più moderato rispetto a quello delle altre nazioni. Tale moderazione è indotta dalla natura etica della memoria dell’esilio in Egitto, dove il potere aveva corrotto i potenti. Oggi che Israele è potente, nazione sovrana nel suo luogo naturale, la lezione di Pesach per Rav Shagar diventa cruciale: “L’obiettivo della Torà nel decretare la memoria dell’Esodo è stabilire una solidarietà tra i vinti, non tra i vincitori. Gli epici trionfi del passato servono a non renderci ubriachi di potere; piuttosto, devono instillare la fede per cui ‘è Dio a darci forza’, allontanando da noi la tentazione di credere che la nostra sicurezza derivi dal nostro potere (cfr. Devarim/Dt 8,17)… L’insicurezza della diaspora deve inquietare la nostra autostima (confidence) come eredi della terra, altrimenti essa degenererà in hubris, precludendoci piena fedeltà a Dio e ottundendo la nostra sensibilità verso le sofferenze degli stranieri in mezzo a noi…”. Pesach: necessaria circolarità tra compassione e autostima, tra universale e particolare, tra erranza e insediamento.
Massimo Giuliani, docente al Diploma Studi Ebraici UCEI