Oltremare – Tempo
L’israeliano medio non è metereopatico. E come potrebbe, con 50 giorni all’anno di scirocco mozzafiato, il famigerato “chamsin”, che porta un nome in cui risuona appunto il numero cinque. Quindi, per la proprietà transitiva della totale indipendenza dalla realtà metereologica, anche con 10 gradi e la grandine ampiamente prevista, lo vedi allegro a campeggiare nell’alta Galilea, e dire con spavalderia all’intervistatore “a noi la pioggia piace!” mentre stringe un bambino bagnato fino al midollo che batte i denti ma ha l’aria felice almeno quanto quella del papà.
C’è molto del pioniere degli anni Venti e Trenta, nelle famiglie che durante Pesach, dovendo pur far qualcosa dei bambini lasciati a casa per settimane, prendono su armi e bagagli e partono per viaggi senza salire su aerei, di solito verso nord, dove le piogge dell’inverno hanno ravvivato i colori e caricato i corsi d’acqua. Facendo lo stesso numero di chilometri potrebbero arrivare a metà del deserto del Negev, una rosa di colori dal bianco al marrone passando per il rosa intenso, ma non troverebbero quello di cui sembrano avere un bisogno atavico: gli israeliani a partire da Pesach cercano l’acqua. Una nazione di rabdomanti. Durante le vacanze primaverili transumano verso nord in cerca di fiumi, ruscelli e vanno bene anche i rigagnoli, in cui tuffarsi, galleggiare o navigare. Più avanti in stagione si rovesciano invece sulla costa, come se qualcuno avesse dato una scossa al tavolino di flipper in cui viviamo e tutte le palline rotolassero verso la linea del mare.
Questo però è stato l’inverno più piovoso e freddo degli ultimi 40 anni, e quindi bisogna aspettare ancora per una discesa in kayak a rotta di collo giù da Kfar Blum, e anche più banalmente per rispolverare il costume da bagno e sfoggiarlo sulla tayelet, il lungomare di Tel Aviv. Ma qui si fa buon viso a cattivo tempo e si parte per il Galil lo stesso, al massimo grandina.
Daniela Fubini