Tempo e ritorno
Il quesito, in sé del tutto innaturale se buttato in faccia all’interlocutore, su «il fascismo ritorna?» evidentemente da alcune parti è trending topic, come si dice oggi nel linguaggio di Twitter. Rischia tuttavia di avere il medesimo spessore degli oramai proverbiali Tweet, non superiori ai 140 caratteri (per arrivare fino a questo punto ne ho redatti ben oltre 200, tanto per intenderci). Si tratta di una domanda sussultoria, enfatica ma priva di spessore qualora non sia corredata da tutta una serie di considerazioni. Brevemente, ancora una volta con massimo schematismo: il primo punto rimanda al fatto che la storia non si ripete. È «storia» non solo ciò che è trascorso ma quanto si caratterizza per la sua unicità. Il secondo punto richiama il fatto che proprio dal momento in cui un’esperienza trascorsa si qualifica per la sua unicità, può allora costituire un elemento di comparazione con quelle in corso. Altrimenti si confonderebbe con queste ultime, a prescindere, senza quindi dirci e consegnarci nulla. Un terzo passaggio è quello per cui comparare e confrontare non è mai assimilare e parificare ma qualificare. Il lavoro sul passato serve per capire il presente. Attraverso linee di continuità ed elementi di discontinuità. L’una cosa non è in contrasto con le altre. Un quarto fattore importante è ragionare anche sulla «lunga durata». Si tratta di un’espressione – la longue durée – che indica l’attenzione nel rapporto tra i singoli eventi e le epoche storiche nel loro complesso. Se ragioniamo in tali termini, e siamo al quinto elemento, comprendiamo che la nostra attenzione vada concentrata non sull’ipotetica ripetizione dell’evento fascismo (il regime) ma sui caratteri politici, culturali, sociali, morali ed eventualmente economici che hanno prodotto il fascismo medesimo: esistono ancora? Si sono esauriti? Soprattutto: in rapporto ad essi, cosa intendiamo quando parliamo di «fascismo»? Da ciò, passiamo a ragionare sulle condizioni di lungo periodo (per l’appunto, la durata) – ossia il sesto punto – che hanno generato quelle situazioni, organizzazioni, reazioni le quali storicamente costituiscono il fuoco del regime che in Italia ha concentrato il maggior grado di rifiuto del pluralismo e della democrazia. E con tale considerazione, andando al settimo passo, ci soffermiamo sulla «modernità», l’epoca nella quale il fascismo si genera e alla quale va ricondotto. Il nostro “problema” non è il rapporto irrisolto, molto difficile, con ciò che chiamiamo «fascismo», ma piuttosto con i conflitti e le contraddizione della nostra età (quella che si genera con le rivoluzioni borghesi della seconda metà del Settecento), sui quali il fascismo storico è intervenuto, con una miscela di violenza e consenso manipolato, per governarne l’evoluzione e la negoziazione. L’ottavo fattore è allora il capire cosa sia rimasto della mentalità fascista. Una riflessione che spesso fa storcere il naso a chi ricorre alla storia politica, riconducendo il passato regime ad un insieme di istituzioni materiali dai tratti identificabili. Tuttavia il fascismo è stato anche altro, interessando e chiamando in causa direttamente il pensiero collettivo. Se un regime finisce, ed in genere ad una data che si può poi facilmente identificare ed appuntare sul calendario, non la stessa cosa può essere detta delle persone che ad esso sopravvivono, essendosi però formate sotto il suo cono di luce (o d’ombra). Il nono dato è quello che deriva da quest’ultima considerazione, ossia che dentro ciò che chiamiamo con il nome di «fascismo» sta anche e soprattutto una gigantesca macchina mitologica, la capacità di costruire un’idea del tempo e di istituire un’egemonia perdurante, che si tramanda nel corso della storia, anche quando le sue istituzioni materiali declinano o scompaiono. L’ultimo passaggio è che il fascismo è molto “moderno”. Non è il ritorno dell’arcaico, del trascorso, ma l’illusione devastante che dinanzi alla crisi dei legami democratici possa sostituirsi, come panacea, il fantasma di un regime protettivo, non solo illiberale ma anche liberticida, capace tuttavia di fornire alla collettività in affanno una risposta alle sue angosce (alle quali esso stesso concorre nel dare forma e visibilità). Detto questo, forse si può forse tornare a riformulare il quesito d’esordio, poste per l’appunto ben diverse premesse da quelle abituali.
Claudio Vercelli