Insegnanti, paragoni, proporzioni
Un’insegnante di Palermo è stata sospesa 15 giorni perché i suoi allievi in un video per il Giorno della Memoria avevano paragonato le leggi razziste al decreto sicurezza. Chiaramente è difficile dare un giudizio obiettivo senza conoscere i fatti dettagliatamente e senza aver visto quel video, ma anche ipotizzando tutto il peggio del peggio che si possa immaginare la vicenda resta comunque sconcertante.
Prima di tutto per le proporzioni: se un paragone come quello merita due settimane di sospensione cosa si dovrebbe fare agli insegnanti che negano o minimizzano o la Shoah? Eppure nella mia città ci sono stati casi clamorosi, tanto che quando insegnavo alla scuola media ebraica di Torino (una ventina di anni fa circa) si dava praticamente per scontato che i ragazzi ebrei avrebbero evitato di iscriversi a un certo liceo per evitare un certo insegnante. Non parliamo poi di quelli che fanno più o meno apertamente apologia di fascismo. Non dovrebbe essere un reato? Certo, un video è una prova schiacciante mentre ciò che è stato detto durante le lezioni si può sempre negare e smentire, ma la sproporzione è dovuta solo a questo?
Se poi il problema sono i paragoni impropri, che dire di chi accosta Israele alla Germania nazista? (E già parlare di “vittime che diventano carnefici” vuol dire fare implicitamente questo accostamento). Eppure anche di fronte a questi paragoni ben più gravi le reazioni, anche le nostre, sono sempre state giustamente caute.
Perché giustamente? Perché il tema dei paragoni è delicatissimo, scivolosissimo e quindi pericolosissimo. Per chi insegna a bambini, ragazzini e adolescenti (in pratica a chiunque non sia uno specialista della disciplina) i paragoni sono necessari: per far comprendere agli allievi un concetto nuovo non si può fare a meno di accostarlo a qualcosa che sia più vicino alla loro esperienza personale; qualunque didattica si fonda su questo. Anche molti midrashim sono costruiti con questo meccanismo (“a cosa somiglia la cosa?” e via con la storiella di un re e di suo figlio, di uno sposo con la sposa infedele, ecc.). Tutti i paragoni sono inevitabilmente impropri, perché si tratta sempre di somiglianze e mai di identità. A maggior ragione quando si parla di storia; ma se nulla fosse mai paragonabile a nulla come potrebbe la storia essere magistra vitae? Anche il noto gioco di obbligare tutti i bambini con una certa caratteristica (per esempio la maglia di un certo colore) a uscire dalla classe per far capire cosa sono state le leggi razziali si fonda su un paragone un po’ grossolano e decisamente impreciso, e tuttavia siamo tutti d’accordo nel ritenerlo un metodo efficace.
Qual è il confine tra un paragone didatticamente utile e un paragone inaccettabile? E, soprattutto, a chi spetta il compito di stabilire quel confine? Difficile dirlo. Mi rendo conto che non si può lasciare tutto esclusivamente al senso di responsabilità dei singoli insegnanti, ma è altrettanto evidente che quando si tratta di porre limiti alla libertà di insegnamento sancita dall’articolo 33 della nostra Costituzione bisogna andare davvero con i piedi di piombo. E, sinceramente, mi pare che nel caso in questione i piedi di piombo non ci siano stati, anzi. Perché i commissari governativi che puniscono un’insegnante per non aver impedito ai suoi allievi di parlar male del governo fanno una brutta impressione. Magari il video è davvero gravemente scorretto, ma questa vicenda crea comunque un pericoloso precedente: quando il controllore coincide con la persona che si ritiene offesa il dubbio sull’oggettività del controllo sorge quasi spontaneo, e ci si domanda se il criterio per decidere quali paragoni siano accettabili e quali no non stia nella loro maggiore o minore correttezza ma nel maggiore o minore fastidio che danno. E dunque potremo ancora dire che i nostri genitori e nonni sono stati immigrati clandestini? Che ci sono stati profughi respinti? Che ci sono state navi di rifugiati che hanno trovato i porti chiusi? O magari un giorno qualcuno ci dirà che queste cose non si possono dire perché suonano come critiche al governo?
Per tutti questi motivi credo che da domani entrerò in classe meno tranquilla.
Anna Segre
(17 maggio 2019)