1919-2019

claudio vercelliLa ricostruzione dello spirito di un’epoca è un po’ come respirare l’aria di quel tempo. Implica ridefinirne non solo le coordinate cronologiche, e quindi i fatti, ma soprattutto gli snodi problematici. Il 1919 fu un anno di profonde tensioni e anche di grandi cambiamenti in Italia. Comunemente è ricordato come il momento in cui il fascismo nacque e iniziò a ramificarsi. Ciò è vero, ma solo in parte. E per più ragioni. La prima è che il «fascismo antecedente al fascismo», ovvero quell’insieme di motivazioni, atteggiamenti, condotte ma anche uomini che precedettero il suo costituirsi come partito prima e regime poi, germinò soprattutto nelle trincee della Grande Guerra italiana (1915-1918). Lì ebbe modo per davvero di incubarsi. La prima guerra mondiale, d’altro canto, rappresentò un evento periodizzante per tutte le società europee che ne furono chiamate in causa e, tra queste, in modo particolare per quella italiana. Oltre a costituire un evento cataclismatico, che si abbatté sui combattenti così come sui civili, inaugurò un ciclo storico che si sarebbe chiuso solo con il 1945, all’atto della sconfitta delle potenze fasciste. In un tale lasso di tempo, durato una trentina d’anni, l’affermazione di regimi non solo illiberali e antidemocratici, ma anche dai tratti inediti poiché totalitari, fu un fenomeno che interessò l’Europa come una rilevante parte dell’Asia. Già la Grande Guerra italiana aveva introdotto e diffuso alcuni cambiamenti di mentalità, sia sul piano delle relazioni sociali sia dell’agire politico, che avrebbero poi pesato nel successivo sviluppo del Paese. In Europa la lunga durata, l’estrema intensità e il massimo coinvolgimento delle popolazioni nel conflitto avevano concorso a militarizzare le società. Di fatto, sia la politica sia i rapporti collettivi subirono una secca brutalizzazione, improntata alla diffusione della violenza come strumento di prevaricazione e di autoaffermazione. A ciò si coniugò la diffusione di una visione sospettosa delle relazioni sociali, fondata su una logica di contrapposizione tra amico e nemico e sulla ricerca ossessiva di «nemici interni», così come venivano definiti non solo quanti collaboravano in segreto con i paesi avversari, ma anche coloro che non concorrevano adeguatamente allo sforzo bellico. Anche da questo stato di cose derivarono poi le idealizzazioni negative sui «tradimenti», sulle «pugnalate alla schiena» (le sconfitte derivanti non dalla propria inadeguatezza militare, bensì da presunti tradimenti altrui), sulla «vittoria mutilata» (la definizione con la quale Gabriele D’Annunzio definì, prima ancora che le armi tacessero, il trattamento dell’Italia ai tavoli della pace). In generale, alla paranoia da complotto, alimentata da quanti ritenevano di poter ricavare un beneficio diffondendo paure e angosce, si coniugava un senso diffuso d’ingiustizia e inappagamento, per nulla risoltosi con la fine delle conflittualità. In altre parole, il tempo delle mediazioni sembrava essersi concluso e con esso il ruolo della politica democratica, parlamentare e costituzionale. Ai governi, a volte agli stessi militari, fu consegnato un rilevante potere di decisione. Il conflitto aveva inoltre diffuso e consolidato la presenza di apparati repressivi e di polizia, l’imposizione della censura, una propaganda capillare che semplificava il senso degli avvenimenti, a tratti deformandoli. Le funzioni dello Stato ne risultavano quindi enormemente amplificate, al punto da determinare aspetti sempre più importanti dell’esistenza quotidiana dei cittadini. In Italia, il tessuto politico e istituzionale liberale faticò moltissimo ad assorbire le spinte che la guerra andava alimentando. La radicalizzazione e la brutalizzazione dei rapporti sociali erano peraltro parte integrante dei processi di mobilitazione collettiva, che si trattasse dei coscritti inviati a combattere o dei civili impiegati nell’economia di guerra. In questo frangente, «la permeabilità dei confini tra destra nazionalista e sinistra antimarxista» (così come ha rilevato lo storico Angelo Ventrone), ossia l’intercambiabilità delle motivazioni e delle suggestioni ideologiche, favorì l’incontro tra esponenti dell’una e dell’altra parte nel nome di una «rivoluzione nazionale» dai tratti non meglio precisati, ma che, proprio attraverso l’accelerazione impressa dal conflitto mondiale, avrebbe dovuto cambiare il volto all’Italia. A siffatti richiami non furono per nulla estranei molti esponenti della stessa società liberale, ritenendo che si potesse in tal modo completare il processo di unificazione nazionale, superando i dislivelli, le asimmetrie, le disomogeneità che attraversavano la Penisola. La seduzione di una «rigenerazione morale degli italiani» s’incontrava con l’esaltazione della natura «proletaria» del Paese, raffigurando la guerra come l’occasione unica per una sorta di alleanza tra spiriti eletti, oltre le divisioni sociali e le differenze culturali altrimenti correnti. Una «sacra unione» di cui gli interventismi (nazionalista, democratico e rivoluzionario) si candidarono a essere sacerdoti e cerimonieri nel nome dell’obbligo di unanimismo e della «concordia nazionale». Anche a combattimenti conclusi, benché le strade politiche di tanti sarebbero di nuovo tornate a essere divergenti, il mescolamento di temi avrebbe comunque influenzato le appartenenze e le filiazioni originarie, concorrendo nel continuare a mischiarle. «Da questo punto di vista, la prima guerra mondiale può essere considerata una vasta e complessa esperienza di contaminazione ideologica in cui movimenti, organizzazioni, associazioni, leghe, comitati, ‘fasci’, individui inizialmente collocati su versanti opposti si mescolarono, ruppero le vecchie appartenenze, coltivarono comuni progetti e, soprattutto, si trovarono a rielaborare insieme il mutamento subito dal fare politica» (sempre Angelo Ventrone). Il punto di avvio del fascismo si colloca esattamente in questo passaggio, denso di conseguenze. Il primo dopoguerra ne costituì quindi la cornice tanto necessaria quanto, se considerata in sé, insufficiente. Necessaria poiché fu epoca di tensioni e contrapposizioni, a fronte di uno scenario internazionale che era mutato in maniera radicale, sia con la lunga durata della guerra sia con i suoi effetti rivoluzionari in alcuni paesi europei. Il fascismo prima maniera – ossia il «protofascismo» – trovò in quelle circostanze la possibilità di iniziare a pensarsi da mera idea a possibile azione, da semplice intuizione a potenziale organizzazione. Ma ciò non sarebbe bastato, per l’appunto, se esso non si fosse presentato come la piattaforma di raccordo per una pluralità di soggetti che nell’avversione verso la democrazia liberale e parlamentare trovarono infine la loro comune matrice. Questo insieme di elementi precedeva, per l’appunto, il 1919. E l’avrebbe anche seguito, dando poi corpo a una dittatura dai tratti del tutto inediti. Una dittatura sociale, tale poiché antisocialista, anticollettivista ma anche molto attenta alla dimensione di massa dei processi politici. Una dittatura moderna, per intenderci. Ma quell’anno fu anche il momento in cui una parte della società italiana, quella rappresentata dal movimento dei lavoratori, si confrontò con speranze fino ad allora inimmaginabili e, al medesimo tempo, con delusioni che l’avrebbero consegnata, nel volgere di un biennio, a essere sudditante al declino dei residui spazi di pluralismo politico, sociale e culturale. Il 1919 va quindi letto alla luce di queste dinamiche, a tratti spietate. Si trattò anche di un clamoroso regolamento di conti tra opposte visioni delle relazioni collettive, dei diritti a venire, degli spazi di espressione, dei processi di redistribuzione delle opportunità, delle risorse come della stessa qualità della vita per la stragrande maggioranza degli italiani. Ne sarebbe derivato qualcosa di lungo periodo, destinato a concludersi, almeno per i suoi aspetti più clamorosi, solo con un’altra guerra mondiale, quella che fu combattuta tra il 1939 e il 1945. Cosa resta, ad oggi, di quella storia? Apparentemente ben poco, se non nulla. Il quadro sociale, politico, culturale in Italia, come in Europa, è molto diverso. Cento anni non sono passati invano. Tuttavia vi è un elemento irrisolto, che si presenta ancora una volta come una sorta di micidiale combinato disposto: da un lato la crisi dei ceti medi, sottoposti alle tensioni e alle torsioni del declino del proprio status sociale, ovvero della loro rilevanza economica e di posizione, a fronte di un senso di impotenza che si manifesta invece come sempre più prepotente (e ridondante); dall’altro, l’incapacità del tessuto istituzionale e costituzionale di fare fronte ad una vera e propria trasmigrazione del potere dalla sovranità della nazione (che non è sovranismo ma è controllo democratico dei processi decisionali) allo spazio della globalizzazione (dove si decide senza mediazioni, in base a semplici e brutali rapporti di forza). In quest’ultimo caso, l’affaticamento delle democrazie sociali è evidente. Cent’anni fa non esistevano quei sistemi d’integrazione e cittadinanza ai quali ci siamo abituati dal 1945 in poi. Ma esistevano democrazie liberali, notabilari che, dinanzi alla sfida dell’accesso delle grandi masse nell’agone politico in molti paesi europei non seppero fare altro se non consegnare – spesso in un rapporto di inconfessabile compromissione – le chiavi del potere ad una barbarie che si presentava come “autenticità”, “spontaneità”, immediatezza. La storia non si ripete, per l’appunto. Ma alcuni suoi tasselli non si esauriscono con il tempo che li ha prodotti.

Claudio Vercelli