Il mistero dell’Alzheimer

kasamL’Alzheimer aumenta in modo esponenziale in tutto il mondo occidentale, ma ancora la scienza non è in grado di spiegare perché, né di identificare la eziopatogenesi della malattia.
In un articolo apparso recentemente sul New York Times, viene posta addirittura in dubbio la diagnosi di Alzheimer, perché spesso il cervello dei malati presenta sintomi che sono tipici invece di altre forme di demenza senile, quali micro-infarti e altri problemi vascolari nonché una forma di sclerosi dell’ippocampo, ancora poco studiata. Finora queste patologie secondarie venivano ignorate e comunque sottovalutate. Ma appare sempre più chiaro che la forma “pura” dell’Alzheimer deriva da una mutazione genetica piuttosto rara. Nella maggior parte dei casi, invece, si sviluppano patologie plurime, legate in buona parte all’invecchiamento, e questo rende ancora più difficile trovare una cura. “Come si può curare ciò che non si riesce nemmeno a definire?” si chiedono oggi molti ricercatori, e sono parecchie le case farmaceutiche che, nonostante abbiano già investito moltissimo, stanno purtroppo abbandonando la ricerca.
Il declino cognitivo dei malati veniva attribuito in passato alla presenza nel cervello delle placche beta amiloidi. Ma abbiamo visto nella rubrica della settimana scorsa, che nei topi ai quali è stato indotto l’Alzheimer e che sono stati trattati con una nuova proteina chiamata Klotho le placche sono presenti, ma il declino cognitivo è molto rallentato. Tanto che il ruolo delle placche di amiloide viene considerato sempre più una concausa della malattia ma non quella principale.
È ormai noto che si possono verificare accumuli di amiloide con abbondanti formazioni delle placche senili senza che si instauri una vera e propria degenerazione seguita dalla morte dei neuroni e demenza.Il neuropatologo Alois Alzheimer, che scoprì e dette il nome alla malattia, aveva descritto la presenza nel cervello dei malati, insieme alle placche senili, anche degli “aggregati neuro fibrillari”(neurofilament tangles) formati da una proteina denominata tau. È ormai assodato che nei numerosi modelli animali ingegnerizzati per manifestare una sindrome del tutto simile all’Alzheimer che colpisce l’uomo, i segni patologici e quelli clinici emergono solo se la proteina tau è presente in una delle numerose forme tossiche; mentre se viene bloccata, l’animale non si ammala anche se c’è un eccesso di amiloide. Per descrivere il ruolo di amiloide e tau qualcuno ricorre all’esempio della pistola fumante, secondo la quale amiloide è il grilletto che scatena la malattia, ma la pallottola che uccide è tau o alcuni dei suoi derivati neurotossici.
Da qui l’idea, sviluppata in Italia dal team dell’European Brain Research Institute (EBRI), il centro di ricerca fondato da Rita Levi Montalcini a Roma, che la cura del Alzheimer possa essere almeno in parte ottenuta con un trattamento duplice e combinato. Ad esempio con l’impiego della proteina nerve growth factor (NGF) che valse il Nobel alla Levi Montalcini. Alcuni suoi allievi come Pietro Calissano e Antonino Cattaneo hanno già dimostrato che il NGF è molto efficace nel’impedire la formazione di amiloide; ora stanno testando la somministrazione contemporanea di anticorpi diretti contro varianti tossiche della proteina tau.
Ma è una delle tante strade che vengono studiate in tutto il mondo, e non si escludono che l’Alzheimer non sia una malattia, ma una serie di patologie con sintomi simili ma cause diverse, autoimmuni, ambientali, genetiche ed epigenetiche, legate a stress..
“Ci troviamo in una situazione analoga a quella vissuta quando si parlava di ‘cancro’, senza realizzare che in realtà questo termine è l’espressione di molte cause fra le quali vi sono quelle genetiche (provocate dall’attivazione di geni mutati detti oncogeni) e quelle ambientali fra le quali si possono annoverare fumo, inquinanti e danni ambientali” spiega il prof. Calissano.
Levi Montalcini definì l’Alzheimer “un suicidio neuronale di massa”: ma perché i neuroni si suicidano ancora nessuno lo ha capito.
Come peraltro avviene con i casi di autismo che sono enormemente cresciuti e per il quale si parla oggi di “quadro” patologico variegato, e non di un’unica malattia.

Viviana Kasam

(17 giugno 2019)