Cos’è il 25 aprile?

anna segreA volte ho l’impressione che tra la memoria della Shoah e quella della Resistenza ci sia una sorta di proporzionalità inversa: più si parla dell’una meno si parla dell’altra. Sarà colpa del fatto che la Resistenza è troppo spesso considerata come patrimonio di una sola parte politica, sarà perché viene spesso citata a sproposito (dai proPal ai noTav), sta di fatto che non è sentita come un valore che accomuna tutti gli italiani e che dunque debba essere trasmesso alle prossime generazioni. Non so se si tratti di una causa o di una conseguenza, ma credo che uno dei contesti in cui il pessimo stato di salute di cui gode la memoria della Resistenza è più evidente sia quello scolastico: per il Giorno della Memoria si organizzano attività, si guardano film, si invitano testimoni, si fanno ricerche, ecc. Non tutto sempre ineccepibile, certo, ma qualcosa comunque si fa. Per il 25 aprile si sta semplicemente a casa, e per di più in un gioco di ponti con il 1 maggio di poco successivo o con la Pasqua di poco precedente per cui il giorno festivo singolo spesso non è neppure percepito dagli studenti come tale. Nessuno si prende la briga di spiegare ai ragazzi perché il 25 aprile possono starsene a casa, e se nessuno glielo spiega non si può dare per scontato che lo sappiano.
Non è detto che questa lacuna sia dovuta ad un atteggiamento meno ostile verso il fascismo, anzi, talvolta ho l’impressione che alcuni ragazzi non sappiano o dimentichino che l’Italia ad un certo punto della seconda guerra mondiale ha subito l’occupazione tedesca: spesso mi è capitato di leggere in un tema che l’invasor di Bella ciao o il piede straniero sopra il cuore di Quasimodo si riferiscono ai fascisti nostrani, con buona pace della storia (e della lingua italiana).
Anche l’informazione sulla Shoah, che pure nelle scuole gode di una relativa buona salute grazie alla Giornata della Memoria, pare risentire a volte della stessa lacuna. Se dieci o venti anni fa si tendeva a parlare di Shoah in giro per l’Europa e a non dare troppo peso a ciò che era avvenuto in Italia, oggi mi pare che si tenda talvolta a cadere nell’errore opposto, come se tra le leggi razziali del 1938 e gli eccidi e deportazioni dal 1943 al 1945 non ci fosse soluzione di continuità, come se i nazisti non c’entrassero per nulla e i fascisti avessero fatto tutto da soli.
Be’, si dirà, che male c’è se un Paese anziché avere atteggiamenti autoassolutori tende invece ad accentuare le proprie colpe? Il male sta, appunto, proprio nel fatto che questa autoflagellazione produce la progressiva cancellazione della Resistenza dall’orizzonte di ciò che è generalmente noto: se i ragazzi escono dalle molte Giornate della Memoria (tranne forse la tredicesima, nell’ultimo anno di scuola superiore) con la convinzione che una mattina i fascisti si siano svegliati e di punto in bianco si siano messi a deportare gli ebrei, è chiaro che l’occupazione tedesca passa in secondo piano e contemporaneamente passa in secondo piano la Resistenza all’occupazione. Se l’autoflagellazione implica l’oscuramento di un momento fondante della nostra democrazia non c’è affatto da esserne fieri, anzi, è assai preoccupante.
È sintomatico notare come questa amnesia sulla Resistenza colpisca anche Primo Levi: quanti tra i ragazzi che lo leggono e studiano sanno che prima di essere deportato come ebreo è stato arrestato come partigiano? Temo siano ben pochi. E questo esempio più che mai dimostra come le due memorie non dovrebbero affatto essere in concorrenza, anzi, come l’una senza l’altra sia inevitabilmente incompleta, imprecisa e dunque pericolosamente fallace. Forse anche noi ebrei non sempre ce ne rendiamo conto.

Anna Segre, insegnante