Ticketless – I rabbini, la Storia, le storie
La mia noterella sul mar delle Antille ha suscitato la replica di Rav Di Segni. Lo ringrazio per l’attenzione con cui mi ha letto. Provo a spiegarmi meglio.
Rav Di Segni dice che mi sbaglio. I Rabbini italiani non trascurano la loro storia. Sì, ha ragione, ma io osservo e chiedo perché i loro interessi di ricerca si siano tenuti lontani dalla contemporaneità. Medioevo e Rinascimento sono mari dove la loro navigazione si è svolta e si svolge pacifica. Per l’Otto e Novecento gli studi che conosco si concentrano quasi sempre sui meriti: il cursus studiorum, le cattedre e gli insegnamenti nei collegi rabbinici, le genealogie dei Maestri, i commenti, le corrispondenze epistolari con gli altri rabbini, la collaborazione alla stampa ebraica. Tutte cose lodevolissime, anche se, non di rado questi lavori mi paiono segnati da una impalpabile vena apologetica. Dimostrano, gli studi che Rav Di Segni ha in mente, mi si perdoni la franchezza, un debole “senso della storia”, danno risposte evasive sul ruolo che i Rabbini, all’alba del mondo nuovo, progettavano per se stessi: non spiegano a quale modello s’ispiravano, quale idea di Stato avevano in mente, come pensavano che l’ebraismo dovesse rapportarsi con una idea di nazione moderna.
Rav Di Segni mi contesta, dicendo che non vi fu immobilismo: “Una decisione”, dice, “ci fu e fu quella di non far passare la riforma”. Con il dovuto rispetto gli chiedo dove ha scovato questa sensazionale notizia. A me risulta che si debba arrivare al 1931 e a Mussolini per disporre di una legge che da un lato regola in modo unitario la vita dell’ebraismo italiano, dall’altro tarpa le ali a ogni forma di pluralità delle vie. Sconfiggere la riforma con l’aiutino del Duce non è titolo d’onore, ma non è nemmeno una vittoria di cui ci si possa vantare scoprire adesso – per giunta da una voce così autorevole – che la decisione era già stata presa prima, senza dirlo troppo in giro, a bassa voce, per non dare scandalo.
Tuttavia, vorrei precisare che sia la riforma, sia il consenso dato al Duce, sul quale pure Rav Di Segni richiama la nostra attenzione, rischiano di essere due questioni fuorvianti. Il rapporto fra ebrei e fascismo non è la causa dei mali successivi, ma l’effetto di un ritardo antico, che consiste proprio in quel dire e non dire, in quel far finta di decidere e non decidere. Per restare alla metafora marina, di rinvio in rinvio, si sperò di aggirare gli scogli più pericolosi.
Nei settant’anni che vanno dal 1861 al 1931, su qualunque trattato rabbinico trionfò la lezione di Manzoni. Sopire, troncare. Sopire, tacere. In una così ostinata volontà di omologarsi al conformismo nazionale io scorgo il veleno della vera assimilazione.
La riforma è soltanto uno fra gli scogli, nemmeno il maggiore. Altre questioni rimasero nell’area dell’indefinito: il rapporto fra Rabbini e dirigenza comunitaria laica, per esempio o il tipo di democrazia interna che si intendeva realizzare nelle comunità, in breve la formazione di una classe dirigente ebraica capace di dialogare alla pari con le migliori forze politiche del tempo. Mi dispiace che la mia nota sia stata interpretata solo ed esclusivamente come un sostegno agli ebrei riformati di oggi, ai quali va, come ovvio, la mia simpatia. Tuttavia allo stato attuale delle cose un loro riconoscimento mi pare utopistico, anche perché l’ombrello normativo della legge del 1931 ha tagliato alla radice molte di quelle giuste aspirazioni. Ci vorrebbe una nuova Intesa, ma con questi chiari di luna, soprattutto con un governo come l’attuale, non vedo proprio come potrebbe essere messa all’ordine del giorno.
Di queste cose erano stati chiamati a discutere – e soprattutto a decidere -, a Firenze, i Rabbini italiani nel 1867. Discussero, ma non decisero. Quei ritardi si ripercuotono ai nostri giorni e rendono sterile la stessa polemica che si sta sviluppando su questo portale: riformati sì – riformati no, consociativismo sì, consociativismo no. Era questo il dissenso che volevo esprimere nella noterella di mercoledì scorso. Non è mia abitudine lanciare sassi nello stagno. Volevo soltanto esortare i Rabbini alle storie e invitarli a fare tesoro ogni tanto pure della letteratura italiana e dei suoi tesori. Mercoledì scorso Calvino, questo mercoledì Foscolo: Esorto i Rabbini italiani alle storie!
Nel dissenso, mi rallegra osservare un punto di accordo. Rav Di Segni mi chiede di estendere l’ipotesi a tutti gli ebrei italiani, e non solo ai Rabbini. Sfonda una porta aperta: certamente, ma ai Rabbini spettava il dovere aggiuntivo di accertare se nella struttura dello Stato unitario i principi della libera Chiesa (o delle libere Sinagoghe) nel Libero Stato fossero adatti o inadatti a garantire la libertà religiosa degli ebrei. Non dissero né sì né no, semplicemente passarono oltre, convinti che il problema non li riguardasse.
Alberto Cavaglion