Un’invenzione antisemita sul mercato
Una storia assurda e immaginaria mantenuta in vita dal pregiudizio anti-ebraico. È una frase purtroppo applicabile a molte teorie del complotto, dai Protocolli dei Savi anziani di Sion alla bufala del Piano Kalergi. In questo caso però fa riferimento a una leggenda ancora precedente, l’idea che le cambiali di credito siano state inventate dagli ebrei: a ricostruire il significato di questa bugia e del perché sia stata adottata anche da grandi personalità della storia, il volume The Promise and Peril of Credit: What a Forgotten Legend about Jews and Finance Tells Us about the Making of European Commercial Society (che sarà pubblicato in Italia da Laterza), dell’economista Francesca Trivellato. La studiosa dell’Institute for Advanced Study dell’Università di Princeton, attraverso un lavoro documentato e approfondito, racconta le radici di questa falsa attribuzione e il fine per cui fu utilizzata e tramandata in diverse forme.
Da dove nasce l’esigenza di scrivere il suo ultimo libro?
Il libro è nato dall’intreccio di interessi accademici e politici, questi ultimi intesi in senso lato, in quanto, come storica dell’economia pre-moderna, dopo il collasso dei mercati finanziari nel 2008 ho ravvisato una nuova apertura tra studenti, colleghi e lettori in generale verso un approccio critico alla storia della finanza. E poi, come spesso capita, il libro è nato anche dall’incontro inaspettato con una fonte di cui si erano perse le tracce, ma che nel corso della ricerca si è rivelata di enorme rilevanza. Dopo aver scritto un libro sui mercanti sefarditi di Livorno (in Italia, Il commercio interculturale. La dispora sefardita, Livorno e i traffici globali in età moderna, Viella), mi imbattei in un trattato di diritto marittimo pubblicato a Bordeaux nel 1647, nel quale si afferma che furono gli ebrei cacciati dalla Francia durante il Medioevo a inventare le lettere di cambio. Come tutti gli storici economici sanno, quest’affermazione non ha alcun fondamento. Ma la cosa sorprendente è il numero di autori – grandi nomi come Montesquieu, Beccaria o l’abbé Gregoire, e molti altri oggi poco noti – che ripeterono questa leggenda o ne diedero altre versioni per ben tre secoli. Come il libro dimostra, questa leggenda non esprime una condanna di tutte le forme di investimento, ma offre piuttosto un’allegoria delle promesse e dei pericoli del credito.
E quali sono le promesse e i pericoli del credito?
L’autore del citato trattato di diritto marittimo e i suoi epigoni erano tutt’altro che nemici del commercio. Ma si trovavano spiazzati di fronte alla diffusione sempre più rapida e capillare di strumenti creditizi assai complessi, tra i quali non era sempre facile distinguere quelli che andavano a vantaggio generale dell’economia e quelli che, invece, arricchivano i pochi in grado di gestire operazioni astruse. Parlando delle promesse e dei pericoli del credito ho voluto evocare questa profonda ambiguità che, allora come oggi, polarizza il dibattito pubblico. L’accesso di nuovi gruppi sociali al credito è, da un lato, un passo in avanti verso l’uguaglianza e, dall’altro, espone gruppi spesso deboli e mal informati alle manipolazioni di chi tiene le redini della finanza.
Cosa sono le cambiali e perché la loro invenzione fu attribuita agli ebrei?
Le cambiali sono uno strumento di credito che facilitò l’espandersi del commercio europeo nel corso del tardo medioevo e dell’età moderna. Erano un sistema di pagamento a distanza che consentiva ai mercanti di mettere a disposizione dei loro agenti somme di danaro nella moneta corrente e di evitare gli enormi pericoli che ogni viaggio comportava all’epoca. Grazie alle cambiali, invece di dover spedire un sacchetto di contanti col rischio di vederseli confiscati da guardie corrotte o spazzati via da un naufragio, mercanti di tutta Europa potevano trasferire fondi all’estero tramite una semplice noterella cartacea. Ma alcuni tra questi mercanti erano anche in grado di utilizzare le cambiali al solo scopo di speculare sulle oscillazioni dei cambi di valuta, talora giocando d’azzardo con gli investimenti di quanti si affidavano a loro nella speranza di moltiplicare i loro pochi risparmi e si ritrovavano invece a perdere tutto.
Come mai il mito coniato da un giurista francese oggi sconosciuto continua a perdurare?
La leggenda di per sé venne messa in discussione molto presto e poi demolita una volta per tutte durante la prima metà del XX secolo, quando diversi studiosi ne dimostrarono la totale infondatezza. Nonostante ciò, colpisce come una narrazione del tutto incoerente e priva di fondamento possa essere rimasta in auge così a lungo. Il suo successo fino alla rivoluzione francese mi sembra si spieghi con il suo valore moraleggiante: attribuire agli ebrei l’invenzione di uno strumento creditizio ormai in mano a molti non voleva dire demonizzare l’uso di tutte le cambiali ma poterne invocare una sorta di peccato originale quando fosse necessario, quando le cose andavano male e i meccanismi più oscuri di quel sistema creditizio creavano una catena di bancarotte. Semmai colpisce la grande diffusione che la leggenda ebbe nell’Ottocento, nell’epoca del positivismo e della nascita della storia come disciplina accademica. Sarebbe bastata qualche verifica testuale per dimostrarne l’insussistenza, ma l’associazione tra ebrei e pratiche usurarie era talmente endemica da mantenere in vita una storia assurda e immaginaria.
Ebrei, denaro, finanza. Perché questi elementi continuano ad intrecciarsi e ad essere presentati attraverso la lente del pregiudizio (negativo o positivo)?
I motivi non sono scontanti. Credo sia importante riconoscere il ruolo del tutto particolare che l’ebraismo svolge nelle dottrine e nelle culture cristiane, e con esso il nesso tra infedeltà religiosa e inaffidabilità economica che è alla base della figura dell’ebreo usuraio (inteso sia come prestatore a pegno che come plutocrate, due facce della stessa medaglia per quanti concepiscono l’usura come l’opposto della carità cristiana). Al tempo stesso penso sia necessario riconoscere le peculiarità che questi stereotipi assumono in diverse circostanze, il loro mutare nel tempo, l’adattarsi ai contesti specifici, ma anche l’affievolirsi e l’intensificarsi a seconda dei casi. Il bisogno di identificare sia il persistere che il mutare del pregiudizio non nasce solo da un’esigenza accademica, ma anche dal desiderio di essere in grado di combatterlo più efficacemente.
La scienza economica, e la storia economica nello specifico, possono aiutare a decostruire questi pregiudizi?
Certamente, a condizione che adottino un approccio critico, a partire dalla consapevolezza che la storia delle dottrine economiche non va concepita come un sapere cumulativo di nozioni sempre più scientificamente valide sulla natura dei fenomeni economici; come tutti i fenomeni, anch’essa si intreccia con altri campi del sapere, compresa la storia del cristianesimo e delle sue rappresentazioni dell’ebreo. Per secoli, queste rappresentazioni furono funzionali a un pensiero economico e una normativa che non erano in grado (come talora ancora non lo sono) di governare gli eccessi della finanza e di trovare un minimo denominatore comune sul piano sia legislativo che culturale.
E il mondo ebraico come si è autopercepito nel corso del tempo e come ha risposto al pregiudizio?
Rabbini e talmudisti hanno da sempre discusso temi di natura economica, a partire dalla liceità del prestito a interesse. Più raramente hanno proposto alle autorità sovrane immagini dell’economia ebraica che si contrapponessero a quelle, negative, della popolazione dominante. Nell’Italia del Seicento, e più precisamente negli scritti di Simone Luzzatto a Venezia, incontriamo uno tra i primi casi di apologia economica ebraica. Per difendere gli ebrei dal rischio di espulsione, Luzzatto ne esagerò le doti commerciali e il contributo alle casse dello stato. Si tratta di un ragionamento interessante e ai nostri occhi paradossale, nel senso che rischiava, senza volerlo, di rafforzare il pregiudizio cristiano. Ma questa lettura sarebbe anacronistica: nella Venezia del ghetto, gli ebrei erano concepiti come un gruppo a parte, subordinato e sempre alla mercé della tolleranza cristiana, e osannandone il contributo economico non si metteva in discussione questa gerarchia. Luzzatto si affrettò inoltre a far presente che, a differenza di altri mercanti stranieri, tanto più quelli di origine ottomana, gli ebrei non possedevano un loro stato e non erano dunque in grado di far pressione o addirittura di attaccare militarmente Venezia – altra ragione per cui esaltarne la potenza commerciale non metteva a rischio le dinamiche di potere locale. Ecco un esempio di cosa significa calare i pregiudizi nel loro ambiente storico, anche a partire dalle strategie retoriche e istituzionali che gli ebrei usarono per difendersi da tali pregiudizi.
C’è una contrapposizione tra un’idea ebraica dell’economia e un’idea cristiana? Quanto quest’ultima ha influenzato la scienza economica moderna?
Occorre distinguere tra due oggetti di studio molto diversi: da un lato, i dibattiti tra studiosi della legge e tradizione ebraiche sulla legittimità di certe pratiche creditizie; dall’altro, la storia delle teorizzazioni da parte di pensatori cristiani dell’esistenza di una presunta economia ebraica. In questo libro mi occupo solo del secondo tema, e in questo senso non ci sono dubbi che, a partire dal XIII secolo, la dottrina cristiana sviluppò norme e rappresentazioni culturali che videro l’ebreo come l’antitesi del mercante cristiano, come colui che spreme le risorse altrui invece di arricchire la comunità nel suo complesso. L’incidenza di queste idee fu tale da influenzare tutti i grandi pensatori moderni, a partire da Marx, Weber e Sombart. Anche per questo, come ho detto prima, non possiamo studiare il pensiero economico occidentale senza comprendere la funzione che la figura dell’usuraio ebbe emersa nel medioevo ebbe nel corso dei secoli.
Daniel Reichel @dreicheilmoked