Radicalizzazione democratica
La stampa e le TV italiane (e non solo), impegnate a sottolineare la durezza dell’attacco di Donald Trump contro le quattro deputate democratiche Alexandra Ocasio Cortes, Ilhan Omar, Rashida Thaib, Ayanna Presley, non si sono curate di prendere in considerazione l’altra faccia della medaglia, cioè la radicalizzazione in atto delle posizioni di una parte almeno del Partito Democratico, che la vicenda in corso ha efficacemente illuminato.
La presenza di posizioni radicali nella società e nella politica americana non è certo un fatto nuovo ma si è quasi sempre manifestata in forme esterne al sistema istituzionale. L’esempio più noto è quello dei movimenti per i diritti civili che, quando hanno assunto, in concomitanza con la guerra nel Vietnam, aspetti che andavano oltre le richieste del movimento guidato da Martin Luther King per mettere in discussione le basi stesse della società americana, sono stati emarginati e non hanno più trovato consenso all’interno del sistema politico. Così è accaduto con movimenti come il Black Power, le Black Panthers, la Nation of Islam di Louis Farrakhan ecc.
In realtà l’istituzionalizzazione del sistema bipartitico negli Stati Uniti ha costituito, fino a tempi recenti, un ostacolo quasi insormontabile perché le voci di dissenso radicale trovassero espressione all’interno del sistema. I tentativi di creare un terzo partito di ispirazione progressista capace di contendere l’egemonia dei due partiti maggiori si sono sempre risolti in insuccessi. L’unico caso in cui un candidato di un terzo partito progressista ha raggiunto una percentuale significativa di consensi è stato con Robert La Follette che nelle elezioni presidenziali del 1924 ottenne il 16,6% di voti popolari. In tempi più recenti, nel 1992, si è verificato di nuovo il caso di un candidato presidenziale indipendente che ha ottenuto un significativo consenso: il miliardario Henry Ross Perott raggiunse il 18,9% di voti popolari: ma Ross Perot non poteva certo essere considerato un candidato progressista. Di maggior significato fu il caso delle elezioni presidenziali del 2000, quando la candidatura indipendente – di indirizzo marcatamente progressista – di Ralph Nader costituì il fattore decisivo per la vittoria di George Bush nei confronti di Al Gore. La percentuale di voti popolari riportata da Nader non fu molto elevata a livello nazionale (il 2,74, corrispondente a quasi tre milioni di voti), ma la sua presenza fu decisiva per sottrarre voti a Gore nello Stato chiave della Florida, dove Bush vinse, dopo interminabili contestazioni, con lo scarto di appena 327 voti.
Il caso delle quattro «representatives» sembra costituire un fatto nuovo nella politica americana perché esse uniscono la radicalità della loro posizione con la militanza all’interno di un partito istituzionalizzato, del Partito Democratico cioè, contrariamente a quanto è avvenuto in passato per le proposte più radicali. La radicalità della loro proposta politica si manifesta in varie direzioni ma acquista un particolare significato in quanto le protagoniste sono tutte e quattro appartenenti a minoranze etniche, sollecitando quindi, di fatto, reazioni legate a una delle linee di frattura più rilevanti della società americana. Ancora più rilevante è il caso delle due «representatives» di religione islamica, e in particolare di Ilhan Omar, che di questa appartenenza ha fatto la sua bandiera e che si distingue per la durezza dei suoi attacchi contro gli ebrei americani e contro lo Stato d’Israele e per il sostegno al movimento BDS. Il riferimento all’Islam non può non richiamare alla memoria le posizioni più estremiste emerse nella società americana, da Malcolm X allo stesso Farrakhan.
Questa radicalità finisce per essere vissuta con imbarazzo dal Partito Democratico, che di fronte agli attacchi di Trump non può non difendere le proprie deputate, ma che al tempo stesso è consapevole che tale situazione finisce per dare nuove carte in mano alo stesso Trump in vista della campagna presidenziale del 2020.
Valentino Baldacci
(25 luglio 2019)