Periscopio – Fascism. A Warning
Segnalo, come godibilissima lettura estiva, un libro davvero ammirevole, utile a comprendere il passato, a interpretare il confuso presente, e anche a cercare di decifrare le promesse, o le minacce, dell’incerto futuro. Un volume scritto da una protagonista della cultura e della politica americana, rivolto ai lettori di tutto il mondo, ma che pare indirizzato in primo luogo a noi italiani, dal momento che ha per oggetto un concetto, e un fenomeno politico e storico, diffuso, in varie forme, in molti Paesi, ma di cui noi, abitanti del “Bel Paese”, vantiamo, purtroppo, il “copyright”, se non altro perché la parola che lo esprime è italiana, italianissima. Mi riferisco al volume “Fascism. A Warning” (ed. it. “Fascismo. Un avvertimento”, Chiarelettere, 2019), di Madeleine Albright, conosciuta soprattutto per essere stata Segretario di Stato degli Stati Uniti e Ambasciatrice presso le Nazioni Unite, ma che ha ricoperto, nella sua intensa e prestigiosa carriera, molti altri incarichi di rilievo.
In pagine dense di puntuali e rigorose annotazioni storiche, scritte in una prosa scorrevole e avvincente, l’autrice aiuta il lettore a comprendere cosa il fascismo, nelle sue molteplici manifestazioni, sia effettivamente stato, nei vari luoghi e tempi – la Albright prende in esame vicende di diversi Paesi di Europa, America e Asia, dall’Italia all’Ungheria, dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna, dalla Germania alla Francia, all’India e diversi altri, dagli anni ’20 fino ad oggi – in cui ha preso forma.
Nell’impossibilità di rendere conto delle molte, acute riflessioni dell’autrice, riteniamo opportuno riferire due importanti considerazioni scaturenti dalla ricerca.
La prima è che il fascismo non va confuso col generico autoritarismo, giacché presenta, rispetto ad esso, una caratteristica aggiuntiva e peculiare, ossia il dovere necessariamente contare sul supporto – più o meno spontaneo e sincero – di masse popolari – più o meno estese – affascinate dall’idea di entrare a far parte di un selezionato ‘club’ di “duri e puri”, contrapposti a moltitudini di nemici o di ignavi. Il fascismo è sempre autoritario, spiega la Albright, ma non si può dire il contrario. Esso, in quanto privo – a differenza, per esempio, del comunismo – di un retroterra ideologico, ha necessariamente bisogno di uno stretto rapporto empatico tra il ‘capo’ e i suoi seguaci, entrambi forti – sia pure a livello inconscio – della propria frustrazione e mediocrità: “siamo delle nullità, ma siamo una falange compatta e agguerrita, e ciò ci rende imbattibili”.
La seconda considerazione è che il fascismo ha sempre la necessità di dividere, selezionare, discriminare. Deve sempre avere, dentro e fuori dalla società, dei nemici da combattere, siano essi connazionali o stranieri. E, se c’è bisogno di ‘diversi’ da colpire, è ovvio e naturale che gli ebrei siano sempre in prima fila. L’antisemitismo non è un “errore” del fascismo – come molti si ostinano a sostenere – ma il suo sbocco, o presupposto, naturale e imprescindibile. Un dato, questo, che sembra spesso facilmente dimenticato da quei ‘filosemiti’ tentati di usare il neofascismo a loro vantaggio, in funzione di murale anticomunista.
Anche se è da dire che il libro – certamente da ammirare sul piano storiografico e morale – suscita tuttavia, talvolta, qualche perplessità, laddove l’autrice pare accomunare fenomeni storici e culturali alquanto diversi tra loro. Non tutti i movimenti e i partiti da lei esaminati, infatti, si sono definiti “fascisti”, o possono da noi incontestabilmente essere definiti tali, e allargare eccessivamente il perimetro della categoria potrebbe rischiare, forse, di scolorirne la specificità.
Il volume, pieno, comprensibilmente, di evocazioni di pagine buie e drammatiche della storia del Novecento, non manca tuttavia di spunti divertenti. La Albright, riesce, per esempio, a far entusiasticamente parteggiare per dei gangster americani, impegnati in un pestaggio ai danni di alcuni pacifici manifestanti. È quel che accade – o, almeno, è accaduto a me – in occasione della rievocazione di un comizio organizzato nel 1939 in una città statunitense dal German-American-Bund (GAB), fondato dal nazista americano Fritz Kuhn, che conduceva da tempo una martellante campagna contro gli ebrei, accusati di corrompere i valori americani, e contro il Presidente Roosevelt, ribattezzato in “Rosenfeld” per le sue origini ebraiche, e considerato responsabile di volere promuovere un velenoso “Jew Deal”. Al comizio ricordato, una moltitudine di invasati si lasciò andare alle solite invettive e farneticazioni antisemite, sotto una gigantografia di Hitler e un’enorme svastica. Ma all’adunata, per sfortuna dei partecipanti, avutone notizia, si presentò anche un gruppetto di malviventi ebrei, guidati dal capomafia MeyerLansky, che decise di non restare con le mani in mani: “Noi eravamo solo una quindicina – raccontò poi Lansky -, ma passammo all’azione. Ne scaraventammo diversi fuori dalla finestra. La maggior parte dei nazisti se la fece sotto e tagliò la corda. Noi gli andammo dietro e li riempimmo di botte. Dovevano capire che non sempre gli ebrei se ne stanno seduti e buoni a sorbirsi gli insulti”.
Ma l’ingloriosa carriera di Kuhn non fu stroncata dalla mafia ebraica: come Al Capone, fu condannato per evasione fiscale e poi per avere sottratto denaro al GAB per mantenere una sua amante. I capi fascisti, com’è noto, devono essere ‘machos’, le amanti sono un ‘must’.
Francesco Lucrezi, storico
(21 agosto 2019)