Periscopio
Il rispetto degli animali

lucreziIn un articolo molto interessante, intitolato “I nuovi convertiti ai fornelli di Dio”, apparso nell’inserto culturale de “la Repubblica” dello scorso 17 agosto, Marino Niola affronta il fenomeno della grande crescita, anche al di fuori delle comunità di ebrei e musulmani, di pietanze certificate, dalle autorità religiose delle due confessioni, quali consone ai rispettivi criteri di purità alimentare – per alcuni aspetti, com’è noto, comuni -, così da poter essere giudicate, rispettivamente, “kasher” e “halal”, e quindi commestibili da parte dei fedeli osservanti.
Tale incremento, osserva Niola, riguarda soprattutto la “kasherùt” ebraica, la cui diffusione avrebbe conosciuto, negli ultimi tempi, una curva impressionante: “se alla fine degli anni Settanta i prodotti a marchio kashèr erano 2.000, adesso sono almeno 150.000, in crescita costante”. La ragione di questa tendenza, nota lo studioso, non va cercata sul piano religioso, ma esclusivamente su quello della crescente consapevolezza dell’opportunità di un’alimentazione genuina e igienica. La gente si rende conto, molto più che in passato, dell’importanza per la salute di una sana alimentazione, e, non riponendo soverchia fiducia nelle assicurazioni delle catene di produzione alimentare e delle ditte produttrici di cibo, preferisce affidarsi alla supervisione dei rabbini e degli imàm preposti a garantire la linearità e limpidezza del percorso che ha portato, attraverso le varie tappe – allevamento degli animali, coltivazione dei frutti della terra, macellazione, raccolta, eventuale aggiunta di prodotti chimici, conservazione, distribuzione, vendita all’ingrosso e al dettaglio ecc. -, la pietanza a raggiungere, dal luogo dove vivevano gli animali e i vegetali, la nostra tavola.
Così, millenni dopo le epoche remote in cui, per varie ragioni e in diversi contesti culturali, furono codificate le complesse regole riguardo a cosa si possa o non si possa mangiare, quali cibi possano o non possano essere accostati, come debbano essere preparati ecc., sempre più persone riscoprono e applicano, più o meno scrupolosamente, tali precetti, senza minimamente curarsi della loro presunta origine divina. Secondo attendibili stime, nota l’antropologo, l’80% dei consumatori di alimenti kashèr non ha nulla a che fare con l’ebraismo: seguiamo con timore i comandamenti in materia di Mosè, ma “non lo facciamo per timore del giudizio di Dio, ma per paura del verdetto inesorabile della bilancia”.
Per chi abbia a cuore i valori dell’ebraismo, tale dato dovrebbe rappresentare un motivo di soddisfazione, in quanto forma – magari involontaria o indiretta – di promozione e pubblicità per la saggezza e l’attualità della tradizione mosaica. Anche se non vanno nascosti i rischi scaturenti dall’enorme business finanziario, con migliaia di ditte che premono sulle autorità rabbiniche per ottenere i preziosi e redditizi certificati di kasherùt. Ma va certamente salutato come un elemento positivo il fatto che sempre più persone si pongano il problema dell’importanza e della peculiarità della funzione nutritiva, che è poi uno dei principali punti di incontro tra il genere umano e la natura che lo ospita. Una funzione che è, certamente, naturale, ma che, dal momento in cui l’Homo Sapiens ha scoperto la ragione, diventa anche culturale. E proprio il fatto che, su questo piano, gli uomini appaiano molto simili alle altre specie animali, evidenzia l’importanza di una sensibilità e consapevolezza su tale terreno. Non è certo un caso se nella Torah abbondano i precetti relativi al modo in cui esercitare le due funzioni primarie dell’uomo sul piano biologico, quelle che più parrebbero accomunarlo alle altre creature viventi: l’alimentazione (volta alla sopravvivenza dell’individuo) e la sessualità (volta alla riproduzione della specie): siamo animali naturali come gli altri, ma dobbiamo comportarci in modo diverso, essendo anche esseri pensanti, chiamati a coniugare natura e cultura, istinto e ragione, libertà e obbedienza.
Ma ciò che va soprattutto ricordato, da questo punto di vista, è che la kasherùt è stata ideata non solo per il benessere degli uomini, ma anche degli animali: la macellazione rituale ha il preciso scopo di ridurre al minimo la sofferenza dell’animale ucciso, e lo stesso può dirsi per il divieto di cibarsi di membra di animali ancora viventi, che, com’è noto, per la sua importanza, è uno dei sette precetti noachidi, vincolanti non solo per il popolo d’Israele, ma per l’intero genere umano. Indipendentemente da cosa si pensi riguardo a una presunta diversità (o superiorità) del genere umano rispetto alle altre specie, infatti, un solo dato resta inconfutabile, ossia il fatto che tutte le creature viventi sono mortali, e tutte quelle cd. “senzienti” sono accomunate, appunto, dalla capacità di soffrire. Il verso di Giobbe, “l’uomo nasce per il dolore come l’uccello per il volo” (5.7), non riguarda solo gli uomini, anche se sono solo loro, forse, a interrogarsi sul perché di tale destino.

Francesco Lucrezi

(28 agosto 2019)