Machshevet Israel La Septuaginta e noi
Lo devo ricordare solo (s’intende) per quei pochi che non hanno familiarità con la storia del Tanach. Septuaginta è il nome latino, che vuol dire Settanta, della prima traduzione della Torà dall’ebraico in greco avvenuta nel contesto della comunità ebraica di Alessandria d’Egitto, governata dalla dinastia ellenistica dei Tolomei, nella prima metà del III secolo a.e.v. Ventitre secoli fa, più o meno. Un evento che ha cambiato il corso della storia. E storicamente parlando è da quel momento che la rivelazione sinaitica diventa universale. Su come avvenne tale traduzione nacque subito un mito: settantadue saggi (sei per ogni tribù di Israele) furono mandati ad Alessandria dal Sommo Sacerdote di Gerusalemme, insieme al testo della Torà richiesto dal re Tolomeo, e la tradussero separatamente producendo settantadue versioni greche perfettamente identiche. Questo mito si trova nella Lettera di Aristea, scritto anonimo del II secolo a.e.v., e fu rilanciato con poche varianti un secolo dopo da Filone Alessandrino, il maggior filosofo ebreo dell’antichità. E’ una storia strepitosa ed eloquentissima, nella quale stanno condensate molte verità: che la Torà esce da Gerusamme tramite Israele, che esiste una sola Torà per tutto il popolo ebraico, che essa è destinata non solo a Israele ma anche al resto del mondo (idea elaborata da altri midrashim successivi), che il greco non è lingua meno degna dell’ebraico a veicolare il messaggio divino, che la traduzione di questi saggi (poi rinominati, per altre ragioni, i Settanta) va considerata ispirata al pari dei testi in ebraico, e dunque si inserisce nel solco della tradizione del Sinai.
Così pensavano gli ebrei della diaspora ellenistica. Ma a partire dal II secolo dell’e.v. venne il dubbio che la traduzione greca non fosse davvero fedele all’originale ebraico (e poi, quale originale, in un’epoca in cui giravano versioni diverse?); inoltre usando solo quel testo, si finiva per mettere da parte e obliare lo stesso sefer Torà e la lingua sacra; infine, la Settanta era diventata la Bibbia di riferimento di un gruppo di minim (eretici) che se ne serviorno come asmakhtà – supporto – per un’altra interpretazione della Torà e dei Profeti, altra rispetto a quella dei chakhamim e della tradizione rabbinica… insomma, divenne l’Antico Testamento dei cristiani. Per ciò molti di quei chakhamim iniziarono a paragonare il giorno in cui si fece quella traduzione al giorno in cui fu costruito il vitello d’oro. La Settanta, e con essa Filone, uscirono dall’orizzonte del giudaismo, almeno fino al Rinascimento. È una storia lunga e complessa, se si pensa che il canone della Bibbia delle chiese cristiane – là dove esiste – è modellato sul canone della Settanta, non sul Tanakh, e che il Nuovo Testamento (scritto in greco, lo dico solo per quei pochi…) cita appunto la Settanta. Se così si può dire, la Settanta è il Sinai dei cristiani.
Non ripasserei questa pagina di storia del pensiero religioso se non fosse per il fatto che in questi giorni si è conclusa un’impegnativa impresa editoriale: è uscito il quarto e ultimo volume della traduzione italiana della Settanta, quello dedicato ai Profeti a cura di Liliana Rosso Ubigli. L’intera opera venne progettata nel 2004 e iniziò ad essere pubblicata nel 2012 con il Pentateuco (anche tale termine lo si deve alla Settanta) sotto la direzione del filologo e storico Paolo Sacchi, in capo a un nutrito team di specialisti di altissimo profilo scientifico. I quattro volumi (in cinque tomi, testo greco a fronte [A. Rahlfs 1935], introduzioni e apparati per oltre 5000 pagine) sono pubblicati dalla Morcelliana di Brescia. La conclusione di tale “traduzione di una traduzione” meriterebbe un siyum, almeno culturale, e il mondo ebraico italiano non dovrebbe snobbarla per varie ragioni. Si tratta infatti della prima “interpretazione” della Torà, non in aramaico come i targumim ma appunto in greco, lingua-matrice della cultura occidentale. L’espressione ‘interpretazione’ (tà tes ermeneias) è di Filone nel De vita Mosis: “Fino ad oggi si tiene ogni anno una riunione solenne e si celebra una festa sull’isola di Faro [dove si sarebbero ritirati i settantadue saggi], cui giungono in nave non solo ebrei ma anche moltissimi altri che onorano il luogo in cui per la prima volta brillò l’interpretazione e ringraziano Dio per quell’antico bene che non invecchia” (II,41). Insomma, ad Alessandria il siyum lo ripetevano ogni anno…
In cosa è diversa allora questa traduzione dalla Torà in ebraico? Ci sono ragioni più profonde della mera concorrenza interreligiosa per giustificare il suo rifiuto? Cercare risposte è uno perfetto esercizio di machshevet Israel. Ne colgo al volo una sola, offerta da un altro esperto di traduzione dall’ebraico in… tedesco, Franz Rosenzweig. La Settanta, dice, testimonia della lotta intraebraica contro gli antropomorfismi e di fatto avviò un processo di spiritualizzazione alla fine del quale il davar sarebbe stato ridotto a logos. Ci pensò l’aggadà a preservare l’antropomorfismo e in questo modo si salvò il giudaismo. Midrash versus Settanta, che match!
Massimo Giuliani, Università di Trento