La scuola impari dal Seder
Nella vita reale tendiamo a pensare che si debba imparare prima ciò che è facile e poi ciò che è difficile, prima ciò che è essenziale e poi ciò che è superfluo. Per prendere la patente bisogna saper accendere il motore, percorrere un po’ di strada, parcheggiare; non ci viene chiesto di gareggiare in Formula 1. Anche il concetto ebraico di “uscire d’obbligo” mi pare rispondere un po’ a questa logica: da noi non si pretende chissà che cosa, ma c’è un minimo indispensabile a cui non ci si può sottrarre.
Nella scuola italiana non è così. Certo, si discute spesso di competenze trasversali e obiettivi minimi, ma questi discorsi sono finalizzati alla stesura dei piani di lavoro a inizio anno, poi non ci si pensa più. Se guardiamo a ciò che succede in pratica ci accorgiamo che invece le conoscenze e competenze essenziali sono spesso quelle meno verificate. Un esempio tra i tanti possibili? Quali sono le materie insufficienti che vengono condonate più spesso in virtù del fatidico voto di Consiglio (cioè della maggioranza degli insegnanti della classe), per permettere ai ragazzi di accedere alla classe successiva? Non quelle considerate difficili (latino e greco al liceo classico, matematica e fisica allo scientifico, ecc.); la sufficienza senza necessità di verifica di solito si regala nelle discipline ritenute più facili: italiano, inglese, storia, ecc. (se poi siano davvero le più facili è un altro discorso). Dunque, paradossalmente, può capitare di essere promossi senza sapere chi erano Alessandro Magno o Napoleone, Petrarca o Leopardi, oppure non essendo in grado di dire l’ora in inglese, purché si dimostri di saper tradurre una versione difficilissima o si sappiano enunciare regole grammaticali astruse. In teoria questo risponde a una logica: si suppone, cioè, che le lacune su cose facili potranno essere colmate nel corso dell’anno scolastico successivo. In pratica, però, non è affatto detto che qualcuno controlli che siano effettivamente colmate.
Non è una novità della scuola di oggi: era così anche quando io ero studentessa; anzi, a mio parere questo paradosso si perpetua di generazione in generazione perché ciascuno ricorda che si è sempre fatto così. E si fa così non solo nello stabilire priorità tra le discipline ma anche nell’ambito di ciascuna: molti insegnanti ritengono che sia più serio interrogare sui pentacosiomedimni piuttosto che far riflettere i ragazzi su una cosa banale come la democrazia. E pazienza se poi crescono senza apprezzarne il valore o senza avere le idee chiare su ciò che è democratico e ciò che non lo è.
“Chi non dice queste tre parole di Pesach non esce d’obbligo.” Ogni tanto penso che la scuola italiana dovrebbe imparare dal seder, durante il quale non ci si vergogna di fare tutti gli anni le stesse domande semplici e dare le stesse risposte semplici (salvo poi approfondirle in una libera discussione), o anche solo pronunciare poche parole semplici ma indispensabili.
Anna Segre, insegnante
(6 settembre 2019)