Ottanta anni dopo
Nel settembre di ottanta anni fa l’esercito tedesco avanzava spedito in Polonia, fiaccando facilmente una strenua ma impotente resistenza. Entro la fine del mese il paese era ormai parte del Terzo Reich, che a spron battuto – nel quadro di una pesantissima occupazione – costruiva le strutture dell’isolamento, della persecuzione di massa, dell’imprigionamento e della distruzione della più numerosa comunità ebraica europea. Nel cosiddetto Governatorato Generale (comprendente i distretti di Cracovia, Lublino, Radom, Varsavia e Leopoli con la Galizia orientale) e nel Warthegau (con il distretto di Lođz), due delle regioni in cui era stata divisa la Polonia dopo la conquista, veniva messa a punto durante pochi mesi l’organizzazione della più efficiente macchina burocratico-amministrativa che la Germania nazista era stata sino allora capace di realizzare contro la popolazione ebraica: imposizione del segno distintivo, coprifuoco, inibizione dall’uso dei mezzi pubblici, formazione dei Consigli ebraici (Judenräte) delegati ai contatti con gli occupanti e preposti a nuclei di polizia ebraica erano solo misure preparatorie, firmate dal Governatore generale Hans Frank, alla reclusione nei ghetti – in condizioni di crescente degrado e sotto-nutrizione – degli ebrei polacchi e di masse ingenti di popolazione ebraica deportata dalla Germania. Concentrazione, repressione, denutrizione progressiva, sfruttamento massiccio del lavoro coatto erano i preludi diretti dello sterminio, che sarebbe stato avviato dalle Einsatzgruppen nell’estate 1941 durante l’Operazione Barbarossa lanciata alla conquista dell’URSS, per continuare poi nei campi della morte polacchi.
Ma come sappiamo questo potente meccanismo di distruzione totale aveva alle spalle la vicenda di un partito inizialmente piccolo, capace di darsi – durante la democratica ma fragile Repubblica di Weimar – una efficace articolazione organizzativa e una struttura paramilitare (le S.A., Sturm Abteilungen) pronta a colpire con violenza suscitando terrore e spesso ammirazione; un partito/movimento nazionalista in grado di penetrare nel tessuto sociale popolare e medio-piccolo borghese, senza con ciò trascurare i legami con l’aristocrazia militare di stampo prussiano e con i settori conservatori più tradizionalisti. Quali impulsi irrazionali e quali stimoli razionali erano alla base del nazionalsocialismo e della sua inarrestabile, spaventosa penetrazione nella Germania a cavallo degli Anni Venti e Trenta? Erano allora diffusi un senso di frustrazione e un desiderio di rivalsa, vivi soprattutto nella piccola borghesia degli artigiani, dei commercianti, degli impiegati, dei negozianti, degli ex ufficiali e sottufficiali reduci della prima guerra mondiale; un’insoddisfazione pronta a infiammarsi di fronte alle difficoltà economiche che inevitabilmente pesavano sulle classi medie e ad esplodere davanti alla disoccupazione crescente durante la grande depressione; una rabbia a forza repressa che cercava capri espiatori, sfogandosi in aggressività verbale e fisica verso chi era o appariva “diverso” e quindi era ritenuto “estraneo” al popolo – inteso come unità compatta e indistinta – e perciò stesso “nemico” e dunque individualmente e collettivamente responsabile delle situazioni difficili, causa diretta della miseria popolare in funzione di una crescita della propria ricchezza e potenza. L’ebreo interpretava da secoli questo ruolo di “male sociale” per eccellenza. Il nazionalsocialismo era divenuto il centro di aggregazione del vittimismo complottistico e dell’intolleranza aggressiva; forniva al tedesco medio motivazioni, stimoli e bersaglio alla sua insoddisfazione.
Sono trascorsi ottanta anni e più. La Germania e l’Europa sono per fortuna ben diverse da allora. Sistemi totalitari, repressione collettiva, programmi di eliminazione di massa sopravvivono solo nella memoria storica a perenne monito per l’intera umanità. Ma la destra radicale – xenofoba, razzista e ancora antisemita – cresce ovunque, nel nostro continente e non solo. Rimaniamo in Germania, la nazione direttamente responsabile di quanto è stato ma anche quella che rispetto al nazismo e alla Shoah ha fatto forse il più profondo esame di coscienza. Alternative für Deutschland (AfD), partito antieuropeo violentemente contrario a ogni politica di accoglienza ai migranti e in vari casi assai vicino ai circoli neonazisti, dopo le recenti elezioni regionali è la seconda forza politica in Brandeburgo (23,5%) e in Sassonia (27,8%); anche fuori dall’ex DDR, nella ricca Baviera per esempio, rafforza le sue posizioni.
Un illuminante articolo pubblicato sull’Espresso nel settembre 2017 ci fa conoscere alcuni dei suoi ameni protagonisti: Bjoern Hoecke, leader del movimento in Turingia, ha detto che “non tutto di Adolf Hitler è da buttar via” e che il monumento berlinese all’Olocausto è “una vergogna”. Il neodeputato Jens Maier ha definito i profughi ‘feccia’ e, come tanti nel suo partito, chiede “la fine del culto della colpa”, quella delle guerre e dell’Olocausto; sostiene inoltre che i neonazisti della Npd siano “l’unico partito che ha sempre difeso la Germania”. Enrico Komning, nuovo eletto nel Bundestag per il Meclemburgo-Pomerania, su Facebook si vanta di cantare la prima strofa nazista dell’inno tedesco con la figlia; fa parte di una fratellanza di destra di Greifswald, Rugia, che pullula di negazionisti. Wilhelm von Gottberg, eletto in Bassa Sassonia, è convinto invece che l’Olocausto sia stato “un utile strumento per criminalizzare i tedeschi”. Benjamin Nolte, eletto in Baviera, si è fatto notare qualche anno fa a un incontro di ex studenti, quando ha allungato una banana a un partecipante di colore; successivamente si è unito a Danubia, una nota fratellanza bollata dai servizi segreti tedeschi come di estrema destra che annovera tra i suoi membri il negazionista Horst Mahler. Il numero due della lista elettorale Afd in Baviera, Peter Boehringer, era un teorico di complotti convinto che il mondo sia governato da una spectre, la NWO, che avrebbe infiltrato il governo, le ferrovie, la Csu e organizzazioni varie; in questa ottica, i profughi sono marionette mandate dalla Siria e da altre zone di guerra per disgregare la Germania. Martin Hohmann, noto antisemita, fu cacciato dalla Cdu per aver sostenuto anni fa che ci sia una censura sul fatto che ebrei avrebbero ammazzato miriadi di persone durante la rivoluzione bolscevica; naturalmente, come ha spiegato poi, anche la critica ai suoi deliri è “guidata da una certa parte”. Dubravko Mandic, candidato a Tubinga, sogna una fusione tra Identitari e Afd e definisce Barack Obama un “negro da quota”. Infine per Thomas Goebel, candidato per un seggio in Sassonia, la Germania è invasa da “scrocconi e parassiti che mangiano la carne dei tedeschi”.
Razzisti, antisemiti e complottisti ce ne sono sempre stati, si dirà. Perché allarmarsi? Già, perché allarmarsi, visto che l’estremismo filonazista non è nuovo e non ha impedito alla Germania una sincera teshuvah sui crimini del nazismo? Ma a forza di essere un fenomeno marginale, l’estremismo di destra ha cessato di esserlo e oggi – di fronte allo stesso diffuso malessere e a una crisi sociale diversa ma analoga a quella degli Anni Venti – AfD è la terza o la quarta forza politica tedesca; e continua pericolosamente ad avanzare. Per citare un recente saggio di Siegmund Ginzberg: Sindrome 1933?
David Sorani
(10 settembre 2019)