Tonni e scatolette
«Il fatto che la loro vita, prima della carriera politica, sia stato un fallimento veniva ingenuamente invocato contro di loro dai leader più rispettabili dei vecchi partiti: invece era il fattore determinante del loro successo presso le masse. In quel modo sembravano provare che incarnavano individualmente il destino della massa dell’epoca e che il loro desiderio di sacrificare tutto al movimento […] era del tutto sincero e non dettato da semplici ambizioni passeggere» (Hannah Arendt). Mai come oggi la politica, sospesa tra licenze populiste e fantasie tecnocratiche, retoriche identitarie e angosce sovraniste, conflitti verbali e messinscene mediatiche, selfie, spiagge ed aule barocche, pare comunicare il senso della sua inessenzialità. Ossia, la misura di quanto poco faccia la differenza, se non nulla, nella formazione dei processi decisionali che per davvero “contano”. Poiché espropriata, nel suo ruolo pubblico, dalla capacità di omologare e consegnare a sé il campo delle scelte strategiche, invece esercitata dall’economia, dalle comunicazioni, dall’informazione. Di questi e di altri ambiti la politica sembra oramai essere divenuta ancella, tanto che è sempre più difficile dire dove si collochi la linea di separazione tra rappresentazione di se stessi (quella che vige nei sistemi comunicativi, dove “ci si mette in mostra”) ed effettiva rappresentanza della collettività (che invece dovrebbe essere il ruolo specifico del politico in quanto tale). Lo svuotamento della seconda funzione è palese, soprattutto quando si coglie la recita dei ruoli e la loro intercambiabilità: negli indirizzi programmatici, nelle alleanze partitiche, nelle posizioni assunte dai singoli esponenti, nei contenuti stessi delle loro dichiarazioni giorno dopo giorno. Poiché tutto ed il contrario di tutto possono essere detti pressoché costantemente – cambiando quindi di centottanta gradi il verso di quanto poco prima era stato sostenuto, ovvero rivoltandolo nel suo opposto e adattandolo repentinamente e tartufescamente alle circostanze del caso – la crisi di credibilità è divenuta una sorta di orizzonte perenne nella vita politica del Paese. Il quale risponde alle sollecitazioni che gli provengono aggrappandosi ad improbabili strapuntini identitari o consegnandosi al mondo delle promesse e dei balocchi. Si obietterà che non tutto vada così, in questa sola direzione di marcia, e che comunque una siffatta condizione non sia da ascrivere esclusivamente alle responsabilità della “società legale”, quella per l’appunto che dovrebbe garantire le decisioni politiche, ma anche al paese reale, la società civile. È una obiezione senz’altro fondata, comunque sensata, ma rimane il fatto che chi si candida a decidere, ottenendo un mandato collettivo in tale senso, ha una duplice responsabilità, quella che gli deriva dal rappresentare interessi collettivi, e non solo personali, nonché di fornire ad essi un indirizzo di senso condiviso. La politica odierna parrebbe adempire tutto fuorché a ciò, semmai legittimando ed enfatizzando quella diffusa deresponsabilizzazione che poi attraversa, come una gigantesca onda di ritorno, l’intero corpo sociale. Deresponsabilizzazione verso ciò che si va dicendo e facendo, verso gli impegni e verso la negoziazione dei conflitti, nei confronti della parola data ma anche riguardo a quella ricevuta. Non si tratta di fare un ritrattino moralista dei tempi correnti ma di capire dove si collochi il punto di rottura delle relazioni sociali, quando esse scemano e involvono in una sorta di entropia dei legami di reciprocità. Poiché su una tale condizione di decadenza della qualità dell’esistenza collettiva, ci sono partiti, movimenti e gruppi politici, che un po’ ovunque, invece, hanno fatto una scommessa a proprio beneficio, ritenendo di potersene avvantaggiare. Non a torto, peraltro. Il declino, infatti, nel mentre punisce molti premia invece altri. Non è mai un processo univoco, semmai concorrendo, spesso in maniera fraudolenta, all’espropriazione dei più a beneficio di pochi, che dalle trasformazioni regressive traggono invece un vantaggio incomparabile. L’elogio dell’incompetenza, presentata come la risposta alle difficoltà del momento, è un suggello di questo stato di cose. Ossia della condizione di impedimento, di irretimento, di rabbioso immobilismo con la quale tanti sentono il peso di una sorta di feroce ed ingiusto declassamento sociale, cercando nelle scorciatoie le risposte a situazioni incredibilmente complesse. La crisi della politica, il suo ridimensionamento come luogo della decisione, va inserito dentro queste concrete dinamiche collettive. La falsa logica dell’«uno vale uno», fingendo che sia praticabile l’intercambiabilità assoluta tra persone e ruoli, non solo mortifica le competenze ma distrugge la democrazia rappresentativa, premiando il disimpegno, il parassitismo, il gregarismo dei diretti così come il narcisismo di coloro che si candidano a dirigere nel nome della «gente». L’incompetenza disintegra i processi di selezione delle capacità e dei capaci, incentivando l’oclocrazia, lo pseudogoverno delle moltitudini, e con esso l’elogio del plebeismo. A conti fatti si tratta di una forma di vero e proprio analfabetismo sociale, figliato dall’età digitale, dove ciò che conta è il rifarsi a vuoti simulacri di purezza morale, alle fantasie deliranti di una “naturalità” e spontaneità che albergherebbero nel «popolo», abbandonato a sé, senza filtri e mediazioni, e ad una sorta di sua istintualità primordiale. Finzioni grazie alle quali coprirsi per coltivare meglio i propri interessi, perlopiù strettamente personali ma contrabbandati come il prodotto della volontà comune. Ogni fittizia rivoluzione etica si nasconde dietro alla graniticità insindacabile di alcuni affermazioni di principio, in ragione delle quali qualsiasi mediazione è il prodotto di un complotto mentre ogni azione economica nasconde un’intenzione criminale. Il linguaggio di chi si muove in una tale logica è quello ripetitivo, ossessivo, maniacale e quindi vuoto, di un ufficio stampa. Che getta contro chi vi si oppone una serie di argomentazioni senza contraddittorio, ripetute a mitraglia. I personaggi che si incaricano di rivestire tali panni sono disposti ad adeguarsi con un repentino camaleontismo alle occorrenze del momento poiché, con la loro spregiudicatezza, rivelano di non avere altro obiettivo che non sia la smaccata autopromozione. Spesso rasentano la pantomima di un ruolo politico, perché non hanno un orizzonte di valori da mantenere saldo ma solo dei bisogni da soddisfare. Anche per questo straparlano di «diritti» (i propri), vissuti come un assoluto senza contrappeso. Sono sempre pronti ad emettere condanne, per salvare se stessi e dannare coloro che li dovessero confutare. Come tali, sono rigorosamente incapaci di assumersi l’onere di una decisione (ovvero i suoi costi) preferendo semmai l’assordante autorappresentazione, in una sorta di eterna campagna elettorale che consiste nell’occupare permanentemente gli spazi della comunicazione. Gli irresponsabili ed incompetenti sono anche il prodotto della subcultura televisiva, quella che riduce il confronto politico alla tifoseria da ultras dei talk-show, alla contrapposizione urlata e straparlante dei social network, in altre parole ad un sistema binario, senza mediazioni di sorta, dove la passione è fideistica poiché cancella il ragionamento e si riconosce esclusivamente nello slogan. Ogni azione umana, agli occhi di questi eterni giudici, è passibile di una stroncatura poiché potenzialmente macchiata dall’ombra della corruzione. Non è un caso, quindi, se la visione del mondo espressa da costoro sia intimamente totalitaria, in quanto incapace di comprendere, fosse anche solo in forma elementare, il senso del pluralismo politico, sociale e culturale. L’irresponsabilità si coniuga sempre alla cronica incapacità di darsi sia degli obiettivi concreti (sui quali misurarsi ed essere poi valutati), sostituendo ad essi le fantasie senza limiti di un infantilismo collettivo, sia di sapersi contenere dentro i limiti della ragione. Della quale invece si fanno beffe, sostituendola con richiami al senso comune (gabellato come «buon senso»), alla mediocrità come virtù, fino alla rilegittimazione dell’ampio repertorio di false credenze che riposa nelle superstizioni. L’esposizione disinvolta in pubblico dei simboli religiosi come feticcio e icona di un comune sentire, e non come espressione di una spiritualità altrimenti privata, sancisce questo genere di regressione. Il collante di tutto è l’uso politico della paura e l’istigazione all’angoscia, che si traduce nella concezione dei legami tra gli individui come ad una sorta di ritorno di ritorno dei vincoli tribali. Non c’è vera società in trasformazione, solo reciprocità e affratellamento tra omologhi. Anche questo è indice di un pensiero totalitario, poiché concepisce il riconoscimento degli individui non per la loro personalità ma solo in quanto copia conforme di un modello precostituito. Nel nome di una minaccia altrimenti incombente, che va scacciata ricorrendo al ritualismo esorcizzante che il politico, come regista e sacerdote al medesimo tempo, celebra dinanzi agli astanti. Il vitalismo esagitato ed esasperante vellica tanto gli istinti primordiali, e con essi la passione per l’indignazione e la denuncia fini a se stesse – il giacobinismo straccione senza sostanza né cultura politica – quanto la remissiva accettazione di un ordine costituito quando quest’ultimo, presentandosi come “rivoluzionario”, dia anche solo una sbiadita impressione che stia combattendo contro un nemico comune, identificato e poi eliminato il quale tutto tornerà al suo posto “naturale”. L’enfasi ossessiva sulla difesa dei confini, sulla sovranità nazionale, sull’identità di un popolo, sulla sua volontà insindacabile, sulla necessità di “tornare grandi” e di “fare da soli”, così come sui pericoli di una “invasione”, si piega allora al principio di autorità, completamente depauperato e deprivato di ogni ammortizzatore pluralistico e democratico. È qui, non a caso, che si rivela l’autentica radice di un tale modo di intendere la politica, praticandola essenzialmente come esercizio di vassallaggio nei confronti di un qualche potere straniero, capace tuttavia di esercitare una sorta di attrazione imperiale. L’infatuazione per personaggio come Vladimir Putin, pertanto per la sua democratura e per le oligarchie, riposa in questo dispositivo perverso ma non diabolico; il fittizio pragmatismo si rivela quindi per ciò che è, ossia non solo mancanza di sostanza progettuale ma ricerca di un qualche padrone, all’ombra del quale riposare finalmente esausti ma soddisfatti. Soprattutto, privi di responsabilità e di luoghi nei quali verificarne la consistenza. Il sovranismo è menzognero poiché, in una età globale quale quella in cui stiamo vivendo, pratica l’esatto opposto di ciò che dice di volere realizzare: non l’autonomia nazionale ma la dipendenza da un nuovo signore, non avendo altrimenti nessuna idea concreta sul da farsi. A questo quadro di nullità tracotanti, di vuoto pneumatico rivestito e confezionato con inesorabile determinazione come il «nuovo che avanza», al pari di un rullo compressore, si accompagna il declino definitivo di chi, invece, vorrebbe presentarsi come un’alternativa alla decadenza e al declino. In quanto coloro che sono parte di questa congerie di depressi, passa il tempo a rivendicare lo splendore di magnifici trascorsi, la gloria di passati immaginari, il rigore di un tempo che fu e che viene ora idealizzato come la migliore storia possibile. È anche questa una forma di moralismo totalizzante, che neutralizza a priori qualsiasi azione politica fingendo, invece, di volerla rianimare. L’orizzonte futuro di costoro è quello dello sguardo rivolto perennemente all’indietro, celebrando con senile potenza la propria perduta gioventù, da imporre come modello universale ai giovani di adesso. Con i quali, peraltro, qualsiasi comunicazione è interdetta a prescindere, poiché l’indifferenza se non l’ostilità verso la loro condizione è il tratto che unifica le vestali del bel tempo andato. In una tale cornice, sono immersi i richiami ai valori universali e inderogabili dei grandi diritti, il rimando ad una giustizia sociale tanto enfatizzata quanto concretamente ipotetica, l’esercizio retorico che simulando di rivolgersi all’intera collettività, nei fatti – invece – intende preservare esclusivamente le prerogative di ceti ristretti, autoreferenziati, solidali tra loro per gli unici, effettivi diritti che coltivano, quelli acquisiti per se stessi. Mentre l’incompetenza e l’irresponsabilità che, nei fatti, per durare debbono poi farsi cialtroneria, sono il lievito naturale di coloro che dicono di volersi curare degli interessi del «popolo», il pianto delle prefiche del passato che non passa si riveste dei panni delle «élite», tuttavia completamente paralizzate ed incapaci di esercitare una qualche forma di egemonia sulla collettività, ripiegando semmai sulla narcisistica autocelebrazione. Tra gli uni e gli altri, tuttavia, in questo totale declino della decisione politica che stiamo vivendo, ci sono anelli di reciprocità e di continuità. Sono offerti dal comune terreno della completa mancanza di desiderio per il futuro; nel ripiegamento ossessivo in una sorta di autonarrazione priva di qualsiasi riscontro con i fatti; nel rifiuto della competenza e della selezione per effettiva capacità; nella mancanza di un linguaggio pubblico che non sia esclusiva retorica; nel ricorso a parole prive di spessore reale; nelle logiche autoprotettive di nicchia e di corporazione inscalfibili. Elementi in presenza dei quali non viene meno solo una classe dirigente ma anche, in prospettiva, una società da dirigere.
Claudio Vercelli
(15 settembre 2019)