“Ebrei, un popolo come gli altri”,
voci a confronto sul libro di Sergio Luzzatto
Prosegue il dibattito sull’ultimo lavoro dello storico Sergio Luzzatto, Un popolo come gli altri. Gli ebrei, l’eccezione, la storia.
Numerose le reazioni all’uscita del volume, che la redazione sta raccogliendo e pubblicando in questi giorni sui propri notiziari.
Vis polemica e storiografia
Non come storico, poiché non lo sono, ma come insegnante liceale di storia, come pubblicista che collabora alla stampa ebraica e come semplice lettore sono rimasto colpito dalla virulenta polemica scoppiata intorno a Un popolo come gli altri. Gli ebrei, l’eccezione, la storia (Donzelli, 2019), l’ultimo libro di Sergio Luzzatto. Sono soprattutto perplesso rispetto alla personalizzazione dello scontro, che non mi pare giovare a ciò che in questo ambito può essere davvero utile, cioè la conoscenza e la riflessione storica.
Pur essendo una semplice raccolta di articoli prodotti nel corso degli ultimi anni, si tratta di un testo pieno di passione, scritto sotto la spinta di un animus fortemente coinvolto da alcune “questioni in sospeso” rispetto alle quali l’autore vuole ribadire la sua posizione e dare risposte definitive. Un saggio che non lascia indifferenti, che induce alla riflessione; ma che non convince nella sua conclusione così unilateralmente critica nei confronti di una presunta storiografia ebraica del tutto chiusa in se stessa e sempre pronta a difendere i suoi miti.
Il discorso sul libro – ed essenzialmente sulla Premessa, che contiene gli strali polemici più velenosi – va affrontato a livello metodologico e a livello contenutistico. Luzzatto è certo storico di rilievo, e giustamente rivendica per gli storici una totale indipendenza di giudizio: essi devono poter essere del tutto liberi nella ricerca, devono potersi attenere solo a quanto i documenti attestano, al rigore delle analisi e a serene considerazioni professionali. Rispetto a questa imparzialità, non ha torto quando sostiene che non esistono “mostri sacri”, che nessuno è fuori dalla mischia, che tutto e tutti possono essere messi in discussione. A livello formale/metodologico, quindi, Luzzatto ribadisce concetti scientificamente indiscutibili. Ma proprio per mettere in atto questi presupposti, occorre saper usare con accortezza i ferri del mestiere. Allo storico si richiede cioè equilibrio e realismo razionale, talvolta difficili da mantenere. È molto facile invece scivolare nel sensazionalismo che fa notizia e per questo crea successo. Fu troppo agevole per lo storico Ariel Toaff circondarsi di grande risonanza mediatica con la sua tesi esplosiva sulla presunta veridicità di alcuni omicidi rituali nell’Europa del Medioevo (Pasque di sangue, Il Mulino). Fu altresì sensazionalistico, per quanto immediato e sincero, l’incondizionato appoggio fornito da Luzzatto a Toaff per quella ipotesi destinata a scatenare violente polemiche; un’ipotesi fondata solo su verbali di confessioni estorte sotto tortura, quindi storicamente debole. Fu ugualmente volta alla ricerca dell’aspetto dissacrante o contraddittorio, nelle pagine di Partigia – saggio molto discusso di Sergio Luzzatto, la rivelazione del presunto senso di colpa di Primo Levi e di altri amici partigiani ebrei rispetto all’esecuzione di due giovani e sprovveduti compagni partigiani non ebrei: anche in questo caso, pur davanti all’indubbio rigore di Levi verso se stesso, lo storico a mio giudizio avrebbe potuto muoversi più da storico, cioè andare con i piedi di piombo prima di delineare diagnosi psicologiche sommarie, non comprovabili dai documenti.
Sin qui l’aspetto formale. Venendo alla sostanza delle aspre accuse contenute in Un popolo come gli altri, personalmente vedo nel dibattito attuale varie, forse troppe, polemiche fra storici di diversa estrazione e orientamento: fatto peraltro inevitabile, di fronte a situazioni che possono essere lette da molteplici prospettive e produrre schieramenti interpretativi contrapposti. Non vedo invece quanto denunciato da Luzzatto: circoli di studiosi ebrei chiusi in un bunker a difesa della propria esclusività e inviolabilità, un’informazione ebraica arroccata a protezione di un sancta sanctorum, un Israele ridotto a ostaggio di rabbini fondamentalisti (che certo, concordo, hanno un eccessivo peso politico). Costruire queste immagini suggestive quanto false espone a un grave rischio: quello di fabbricare miti, illudersi che siano la realtà, divenire infine prigionieri di una teoria del complotto. Proprio ciò di cui gli ebrei sono stati vittime per secoli.
David Sorani
Essere come gli altri
L’ultima fatica – come si suol dire – di Sergio Luzzatto è Un popolo come gli altri – Gli ebrei, l’eccezione, la storia (Donzelli, 2019, pp. 310, euro 19.50). La quale fatica è in qualche modo distribuita nel tempo, in quanto a pagina 20 si informa che il libro, fatta eccezione della premessa, consiste in una raccolta di articoli il cui anno di pubblicazione risulta in calce a ciascun testo, preceduti da una interessante (e nuova) Premessa.
La natura dell’opera – non un saggio, quindi, bensì una raccolta di articoli – pone in essere una serie di problemi che, malgrado la meritata fama dell’autore, affiorano lungo tutto la lettura. Sarebbe auspicabile, di conseguenza, che la citata fatica sfociasse in un saggio organico e unitario, perché le diverse affermazioni di cui è costellata la raccolta mancano dei riferimenti bibliografici che d’istinto si cercano laddove, ad esempio, si sia dinanzi ad affermazioni come “Quanto a Israele, si fondava come Stato etnico e confessionale proprio mentre la vecchia Europa cercava di risorgere dalle proprie ceneri come Europa unita, in una prospettiva laica di superamento dello Stato-nazione” (p. 76). In un articolo, le affermazioni apodittiche possono essere ammissibili, in un saggio forse le considerazioni potrebbero variare. Sostenere che Israele nasca come stato etnico e confessionale richiederebbe sia un approfondimento che un apparato bibliografico, tanto più se il libro aspirasse ad esternare una tesi che è ben riassunta nel titolo: “Un popolo come gli altri”. Sennonché, se gli ebrei sono un popolo come gli altri (e qui siamo d’accordo) perché Israele dovrebbe essere diversa dai suoi vicini, notoriamente etnici e confessionali? A riprova che a queste affermazioni avrebbero giovato degli approfondimenti e un preciso riferimento bibliografico, che non sembrerebbe possa essere surrogato dalla bibliografia a p. 305.
Gli articoli spaziano su temi talvolta diversi e, laddove contengono delle recensioni, conducono il sottoscritto a compiere una recensione della recensione; ancora, se qualcuno decidesse di commentare queste nostre frasi, porterebbe a compimento la recensione della recensione di una recensione. Tutto questo sarebbe molto piaciuto a Jorge Luis Borges, ma a noi piace molto meno, in quanto si va incontro ad una figura meschina, che ci porta a mettere le mani avanti: la raccolta è bella e piacevole ma, se la si vuole commentare, si può soltanto essere disorganici. Per esempio, vi è una dichiarata consonanza d’idee fra l’autore ed Enzo Traverso, che richiede una vasta digressione.
Quindi, il punto di partenza (il popolo ebraico è come gli altri), che è anche quello d’approdo, di questo valente studioso, non appare facilmente riducibile alla cennata forma prescelta, che ci autorizzerebbe ad ipotizzare, per esempio, che tutti i popoli siano diversi, e che non esista in natura un popolo come l’altro, come invece recita il titolo. Non solo: se il popolo ebraico è (o fosse) diventato come gli altri (tesi cara anche a Enzo Traverso, cui Luzzatto sembrerebbe aderire) saremmo in una via parallela a quella resa famosa da Francis Fukuyama: poiché, come asserisce Paul Johnson, gli ebrei sarebbero il lievito della storia, avendo esaurito siffatto compito, costoro sarebbero hegelianamente vicini alla fine della storia. Al riguardo, appaiono leciti i dubbi, come risulta dalla messe di Nobel che puntualmente ricevono gli ebrei.
Un ulteriore dubbio che scaturisce dalla formula cui è intitolato il volume (un popolo come gli altri), deriva dalla passione dell’autore per gli argomenti ebraici che scaturisce dalla sua pregevole opera perché, se si trattasse – come pensiamo – di un popolo che non si differenzia dagli altri, non si spiegherebbe questo suo eccezionale interesse, che porta a riunire articoli (peraltro interessantissimi) per sostenere una tesi mirabilmente condensata nel titolo, tanto più che l’interesse eccezionale (diciamo) per l’ebraismo è un argomento trattato in Italia da Guri Schwarz (Una “scoperta dell’ebraismo”.., Mondo contemporaneo, 2017).
Non sarebbe stata inutile, inoltre, la menzione della ricerca affannosa degli ebrei come singoli e come popolo di essere come gli altri; qui la letteratura è sconfinata.
L’autore ha il merito, non minuto, di riferirsi agli ebrei a stregua di “popolo” mentre lo Statuto dell’ebraismo italiano si limita al versante religioso. Questa affermazione comporta, a nostro avviso, che un ebreo sarebbe tale anche se non professasse la fede ebraica (diciamo). Se gli ebrei sono un popolo come tutti gli altri, come giustamente sostiene Luzzatto, dovremmo ammettere che necessitano di un territorio come tutti gli altri, ed è quello il compito del sionismo. Il punto è che, laddove troviamo una premessa maggiore, non possiamo esimerci da quella minore e dalla conclusione, anche se dovessero divergere in tutto dal pensiero dell’autore, perché quando si avvia un ragionamento, i terzi sono (siamo) tentati di svilupparlo per capirne la fine o, meglio ancora, la sua eterogenesi. Se gli ebrei sono un popolo come tutti gli altri, ma Israele è il solo Stato la cui esistenza è contestata, ne consegue che gli ebrei non sono trattati come tutti gli altri popoli, il che non sembra proprio un dettaglio.
L’autore dedica un articolo (L’estremismo ebraico) anche alle idee di Enzo Traverso (a p. 73: “troppo bravo per incontrare gloria universitaria in patria”), del quale richiama l’opera “La fin de la modernité juive” (da noi letto nella versione inglese, appresso richiamata). Qualche dubbio: a p. 74 si legge “Gli estremisti della critica sono divenuti estremisti del dogma. Da sovversivi dell’intelligenza europea, gli ebrei si sono trasformati in guardiani dell’ortodossia occidentalista”. La formula” gli ebrei”, sembra troppo generalizzante: da dove si evince che sia così? Nello stesso volume (p. 73) l’autore sembrerebbe contrario a tali generalizzazioni. Nella sua premessa, dato l’argomento, forse avrebbe potuto trovare spazio un riferimento al convegno su Usi e abusi della Shoà, del 16 gennaio 2019, che ha trovato vasto spazio nella stampa ebraica e che si poneva in posizioni critiche.
Ciò che l’autore definisce “estremismo culturale” (p. 74.) andrebbe forse definito come tendenza all’innovazione, in contrasto con l’imperante misoneismo reazionario dei nostri giorni. Questo “estremismo” (che invece è qualità estrema) si è molto prosciugato, ma ciò non va ascritto al versante ideologico bensì ad un più generale e visibilissimo declino culturale, visibilissimo perché è impossibile riconoscere nei nostri contemporanei delle figure analoghe alle grandi figure del passato. Quanto all’università italiana, Franco Modigliani (unico italiano Premio Nobel per l’Economia) sosteneva che “una classe dirigente che è stata selezionata in base alla sua capacità di subire umiliazioni, di non avere amor proprio, è quella che non è in grado di guidare l’Italia” (Avventure di un economista, Laterza, 1999, p. 191 ss.).
Per gli ebrei vi è, però, una scusante, che riguarda la scure della persecuzione e della Shoà, che ha distrutto l’ebraismo italiano. Si tratta anche, se non sbagliamo, delle idee di Enzo Traverso, correttamente citato da Luzzatto:, il quale scrive che “Today, the axis of the Jewish world has shifted from Europe to the United States and Israel” (The end of Jewish modernity, Plutopress, 2016, traduzione D. Fernbach, p. 3) anche perché, aggiungiamo noi, la gran parte degli ebrei europei è stata sterminata o costretta a scappare, come l’autore subito dopo ricorda. Traverso menziona altresì l’islamofobia e la giudeofobia, quest’ultima, a suo avviso, insorta a causa del conflitto israelo – palestinese. Se così fosse, sarebbe da domandarsi perché siano colpiti dall’odio gli ebrei estranei al conflitto mediorientale. Subito dopo, Traverso assume che “The memory of the Holocaust, transformed into a ‘civil religion’ of our liberal democracies, has made the former pariah people a protected minority”. Sennonché, la memoria dell’Olocausto riguarda i morti e non i vivi, come ritiene Traverso, visto che sostiene che vi sia “giudeofobia”, a causa del conflitto mediorientale, nel qual caso sarebbe mutata la causa dell’odio ma non l’odio stesso (prima si odiavano gli ebrei per una pluralità di cause, ora per una sola, che riguarda il Medio Oriente). Traverso sostiene che gli ebrei voterebbero a sinistra come uomini e a destra in quanto ebrei (p. 4). Si tratta di formule e di ragionamenti della cui compatibilità non riusciamo a venire a capo, e siamo combattuti fra la consapevolezza della nostra pochezza ed il dubbio di non avere tutti i torti.
Questi validi storici si domandano perché non ci siano più ebrei rivoluzionari (Traverso, a p. 36: “within the intellectual world, the end of Jewish modernity took the form of a conservative turn”, Luzzatto a p. 73 ss, il quale discorre di “estremismo culturale”): sarà (diciamo noi) perché i comunisti hanno dichiarato fallimento, portando i libri nel tribunale della storia, la quale ci offre la beffa del capitalismo di Stato cinese? D’altronde, Traverso stesso risponde autorevolmente: “The Holocaust put an end to an age in which, to use the words of Eric Hobsbawm, Jews underwent an explosion of creativity, like boiling water lifting the lid of a saucepan” (p. 57, cfr. Luzzatto a p. 76). Anche se Traverso dispiega una interessante bibliografia, è da chiedersi se i suoi singoli meravigliosi mattoncini di un affascinante Lego intellettuale combacino tutti. Per esempio, quando asserisce che “the ‘Jewish state’ could only arise as a homogeneous nation-state by the exclusion of the Palestinians” (p. 16) non sembrerebbe considerare che il piano approvato dall’ONU nel 1947 recava il nome di ‘partizione'”.
L’autore scrive che “La Shoah non è stata il ‘male assoluto’ di cui tanto parlano i retori del 27 gennaio. Sia il sostantivo che l’aggettivo sono scelti senza cura. Il sostantivo, in quanto evoca una dimensione etica piuttosto che storica; l’aggettivo, in quanto suggerisce che la persecuzione razziale sia stata a legibus soluta, sciolta da ogni legge, quando corrispose invece a una legislazione politicamente voluta e operosamente perseguita (p. 212 ss.)”. In questo caso, un’affermazione di tale rilevanza richiederebbe il corredo di qualche citazione, anche discorde, di autori noti e recenti. Nel merito, non risulta una norma tedesca kelsenianamente emanata, che disponesse il genocidio degli ebrei, a meno che ci si voglia riferire al Führerprinzip, il quale era comunque poco kelseniano e molto hitleriano.
Quanto alla memoria dell’Olocausto, avremmo gradito trovare, nel volume di Luzzatto, alcune voci dell’ebraismo italiano, come Roberto Della Rocca, Direttore Area formazione e Cultura UCEI, la cui carica ufficiale non gli ha impedito di esprimere pensieri originali e, soprattutto, critici. Inoltre, il discorso sull’unicità o meno dell’Olocausto non può esaurirsi nella mera menzione ma postula una comparazione. Al riguardo, rimandiamo al citato Convegno su Usi e abusi della Shoà.
Nell’interessante volume di Luzzatto avrebbe potuto trovare ospitalità la frase di David Ben Gurion, ormai un tormentone, per cui Israele sarebbe diventato uno Stato come gli altri quando avesse avuto ladri e prostitute, dalla quale (arbitrariamente) desumo che il leader sionista avrebbe promosso furto e prostituzione pur di rendere gli ebrei un popolo come gli altri. Tale riferimento, messo a confronto con la tesi del libro, sembrerebbe riassorbirla, attribuendole un significato più vasto, sul quale sarebbe auspicabile un confronto diretto con l’autore, a beneficio degli studenti. Siamo stati invitati dai giuristi al Campus Einaudi nel corso di quest’anno, ci torneremmo volentieri.
Emanuele Calò, giurista
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