Sergio Luzzatto e la ricerca
del caso giornalistico,
una deriva che mette tristezza
Anche lo studioso Alberto Cavaglion (nell’immagine) interviene sul libro Un popolo come gli altri. Gli ebrei, l’eccezione, la storia, dello storico Sergio Luzzatto, già al centro di numerosi interventi pubblicati negli scorsi giorni su questi notiziari.
Sbagliano questa volta gli amici di Pagine Ebraiche, li esorto a non insistere. Fra l’altro questa volta i bersagli principali di Sergio Luzzatto per fortuna sono, senza nominarli, Marco Belpoliti, il suo sito web doppiozero e un non meglio identificato studioso di cose ebraiche, reo di aver fatto cadere la mannaia sulla versione italiana della postfazione alla traduzione francese di Partigia, il libro sul “terribile segreto” di Levi.
Sergio Luzzatto collabora ai principali quotidiani nazionali, insegna in università straniere prestigiose, è di casa da Einaudi, Mondadori e Gallimard, vende migliaia di copie, appare in televisione, però continua ad atteggiarsi a vittima. La cosa fa davvero sorridere. D’accordo, in un libro di storia, insinuare accuse senza fare nomi è una cosa tristissima, ma tanta mania di persecuzione mette il buonumore addosso. Già che ci sono ne approfitto per tranquillizzare i miei pochi lettori. Non sono io l’innominato censore reclutato da Belpoliti per bocciare la prefazione francese di Luzzatto. Avevo già dato, a viso aperto. Quando uscì Partigia, gli avevo indicato una fonte pensando non la conoscesse: il diario di un curato di montagna che racconta di vessazioni da parte di giovani partigiani contro un’anziana signora ebrea. La mia fonte, edita e disponibile in molte biblioteche, non chiariva «il terribile segreto», ma faceva luce sul contesto. Con mio stupore Luzzatto mi dedicò una pagina e mezza de «La Stampa», dimostrando che di quella sventurata donna e della sua vicenda sapeva tutto. Come mai non avesse pensato di dedicarle nemmeno una noticina a pié di pagina di Partigia non lo spiegò allora, non lo ha spiegato nella postfazione per Gallimard bocciata da Belpoliti e vedo che continua a non spiegarlo adesso nella premessa di questo nuovo libro. Invece continua, ieri come oggi, a lamentarsi e a dirsi perseguitato.
La verità è che Luzzatto ha la pessima abitudine di lavorare solo sulle fonti che gli vengono utili per abbattere i tabù che gli piacciono. Ribelle, ma part time. Volendo togliere le «stimmate» a Primo Levi (l’orribile paragone con padre Pio è in una intervista a Glodkorn, «L’Espresso», 2 maggio 2013), infrangeva i tabù dei «guardiani del faro» della Resistenza. Giusto, anche a me piace infrangere i tabù. Peccato che si sia fermato a metà. Non infranse la parte più scabrosa degli eventi, per denunciare la quale sarebbe stato necessario tirare fuori il coraggio che non ha: nella zona dove si svolgono i fatti narrati in Partigia, si muovevano anche sedicenti partigiani che avevano l’abitudine di vessare anziane donne ebree rimaste sole, al fine di derubarle o segnalarne la presenza ai repubblichini, inducendole infine alla resa o al suicidio. In Partigia non una riga per Helène Rudnitzki, la cui terribile morte mi impedisce oggi di salire ad Amay: quel silenzio su di lei mi tormenta più del pensiero che lì sia stato arrestato Primo Levi.
Dovrei scrivere «Primo», in modo confidenziale, così il titolo di un capitolo di questo ultimo libro: articoli per lo più segnati dall’insistente e mieloso tono di chi deve dimostrare quanto sia caro a Luzzatto lo scrittore torinese. Non mi soffermo su questi articoli e nemmeno sull’auspicio che la storia degli ebrei diventi una storia normale, priva di quei caratteri di eccezionalità sacralizzante che spesso la caratterizza. Un falso problema. Chi non lo vorrebbe? Non nego che una parte dell’ebraismo indulga a forme enfatiche e se qualche volte ci sono cascato o ci casco anch’io chiedo venia: però anche Luzzatto potrebbe essere più collaborativo. Lo scandalo che Pasque di sangue di Ariel Toaff suscitò, prima ancora di andare in libreria, ebbe quelle dimensioni e suscitò un vespaio per un lancio scandalistico del Corriere firmato indovinate da chi.
Come ha scritto assai bene nei giorni scorsi Anna Foa, questo ultimo libro sfonda porte aperte. Il titolo strizza l’occhio a una celebre raccolta di scritti sparsi di Pierre Vidal-Naquet, ma i pezzi raccolti non hanno la stessa robustezza: sono recensioni di libri scritte in fretta, pezzi occasionali, effimeri. Un lettore comune pensa con rimpianto ai saggi di Enzo Traverso o alle raccolte di pagine giornalistiche di studiosi che certo non furono teneri con Israele e con l’uso distrofico della Shoah: Vidal-Naquet o Cesare Cases. Luzzatto si appoggia per regola sempre a un modello senza avere eguale autorevolezza. Penso agli storici israeliani ricordati da Anna Foa, penso soprattutto ad Amos Oz citato qui una pagina sì e una no. Un lettore comune allora si domanda: perché non risalire all’originale e abbandonare al suo destino la copia conforme?
Il caso-limite su cui vorrei dire qualcosa riguarda Anne Frank, cui Luzzatto aveva già dedicato una parte della sua Prima lezione di metodo storico (Laterza, 2010). Luzzatto ama molto ripetersi. Qui come allora si appoggia a modelli autorevolissimi, Cynthia Ozick o Philippe Lejeune, il secondo lo saccheggia a man bassa. Allora, di nuovo, perché non risalire all’originale? Colpisce soprattutto nelle pagine sui Diari una malcelata antipatia per il padre di Anne, colpevole di tutti i mali possibili. Luzzatto lo pone a confronto con Faurisson, il grande inquisitore che mise in dubbio l’esistenza dei diari. Alla fine leggendo queste singolari «lezioni di metodo» si è indotti a supporre che gli riesca più simpatico Faurisson di Otto Frank. Anche la Ozick, in un saggio tradotto lo scorso anno in italiano, non riserva attenuanti alla maldestra capacità editoriale di quel povero padre verso il quale io invece provo da sempre una enorme simpatia: intanto perché non so che cosa avrei fatto io, non so che cosa avrebbe fatto Luzzatto se ci fossimo trovati nella situazione di dover scegliere che cosa tagliare e che cosa pubblicare del diario della figlia in un contesto storico come quello in cui si venne a trovare. Luzzatto insiste invece soltanto sul fatto che oggi noi disponiamo dell’edizione critica dei diari, perché Faurisson mise in discussione l’esistenza stessa dei medesimi. Può darsi, ma questo non toglie la gratitudine che noi dobbiamo a Otto Frank, cui si deve il merito di aver impartito al primo negazionista una «lezione di metodo» più bella di quella che Luzzatto intende impartirgli: invitò Faurisson a Ginevra per mostrargli nel caveau di una banca la reale esistenza di pagine che ancora oggi ci commuovono proprio per la loro doppia stesura, di cui Luzzatto si disinteressa: la prima versione diaristica, la seconda riscrittura letteraria. Come se Anne avesse prefigurato una letteratura dell’estremo. Scrivere su Auschwitz prima di Auschwitz.
Infine, un’ultima cosa, di tutte la più importante. Mi interessa poco soffermarmi, come ha fatto nei giorni scorsi Gadi Luzzatto Voghera, sulle definizioni accademiche di storia dell’ebraismo o storia degli ebrei, né mi struggo sulla legittimità dei dipartimenti di Jewish History. Che cosa fanno o che cosa dovrebbero in quei dipartimenti insegnare mi interessa poco. Questioni di lana caprina, per me empirista impenitente, abituato a giudicare la storia senza aggettivi. Non esiste, dal mio punto di vista, una storia ebraica, come non esiste una storia delle donne, degli omosessuali, degli zingari e di nessuno. Rivendico la mia rustichezza. Esiste la storia, punto. Esistono ricerche di storia serie, altre meno serie. Sta a noi metterci alla prova scrivendo libri seri e accettando il giudizio anche severo di chi ci legge e ci critica senza per questo atteggiarci a vittime innocenti e inconsolabili. Avevo ammirato i primi lavori di Luzzatto, da qualche tempo confesso di provare tristezza di fronte al suo sempre più impellente bisogno di costruire casi giornalistici. In tutta sincerità si può vivere sempre di media e di casi-letterari? Per questo chiedo agli amici di Pagine Ebraiche di lasciarlo perdere e di passare ad esaminare altri libri di storia più degni di questo nome. È di ieri il libro di Luzzatto su Massimo De Caro arrestato per avere svaligiato l’antica biblioteca dei Girolamini di Napoli. Immagino l’affanno, nelle case editrici per cui Luzzatto lavora: redattori chini sulle bozze al fine di togliere i refusi, ma anche di mostrare all’ufficio legale eventuali passaggi pericolosi, onde evitare di finire in tribunale come già accadde per il libro su padre Pio. Deprimente è la successione dei personaggi studiati: il corpo di Mussolini, padre Pio, Primo Levi, il ladro dei Girolamini. E non lo scrivo, sia ben chiaro, perché scandalizzato della pessima compagnia in cui si è venuto a trovare l’autore di Se questo è un uomo. Lo scrivo perché, uno peggio dell’altro, si tratta di libri che con il passare degli anni sempre meno assomigliano a libri di storia.
Alberto Cavaglion
Clicca qui per leggere l’intervento di Rav Riccardo Di Segni
(Pagine Ebraiche 24, 16 settembre 2019)
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(Pagine Ebraiche 24, 13 settembre 2019)
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(Pagine Ebraiche 24, 12 settembre 2019)
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(Pagine Ebraiche 24, 11 settembre 2019)
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(Bokertov, 9 settembre 2019)
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(Pagine Ebraiche, 2 giugno 2013)
Clicca qui per leggere l’intervento di Gloria Arbib
(Pagine Ebraiche giugno 2013)
Clicca qui per leggere l’intervento di Stefano Jesurum
(Pagine Ebraiche 24, 30 maggio 2013)
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(Pagine Ebraiche 24, 26 maggio 2013)
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(Pagine Ebraiche 24, 23 maggio 2013)
Clicca qui per leggere “Partigia: il grande provocatore perde la bussola”
(Pagine Ebraiche 24, 21 maggio 2013)
Clicca qui per leggere l’intervista a Guido Bonfiglioli – “Questo era Primo”
(Pagine Ebraiche maggio 2013)
Clicca qui per leggere l’intervento di Claudio Vercelli
(Pagine Ebraiche 24, 28 aprile 2013).
Clicca qui per leggere l’intervento di Alberto Cavaglion
(18 settembre 2019)