I Giusti nell’Islam

francesco bassanoSalim Hallali (1920-2005) è stato un cantante algerino di musica popolare araba, nato da padre turco e madre ebreo-berbera. Fu un personaggio di “frontiera” vissuto tra l’Algeria, la Francia e il Marocco, apprezzato tutt’ora nel Maghreb e nelle comunità ebraiche del Nordafrica espatriate in Francia e Israele. Specie in Israele nell’ultimo decennio c’è stata da parte di giovani musicisti una vera riscoperta del repertorio musicale ebraico-arabo del Novecento, e Hallali è spesso rievocato. Nella Parigi occupata dai tedeschi, Hallali perse la propria sorella ma riuscì a salvarsi dalle persecuzioni rifugiandosi nella Grande Moschea in stile Mudéjar del V arrondissement, grazie alla protezione dell’imam Si Kaddour Benghabrit il quale attestò che egli fosse musulmano. Quello di Hallali fu un caso isolato? Come si legge anche su Gariwo, secondo alcune fonti durante la Seconda guerra mondiale la Grande Moschea di Parigi salvò dai 500 ai 1600 ebrei, soprattutto sefarditi o maghrebini, i quali avrebbero ottenuto dall’amministrazione musulmana un falso riconoscimento di identità musulmana o un lasciapassare per il Nordafrica ed altre zone sicure, così da sfuggire agli arresti e alla deportazione. Altri sarebbero stati nascosti all’interno dell’imponente edificio e alcuni bambini ebrei accolti in famiglie musulmane. Il soccorso spesso avveniva grazie ai combattenti algerini del FTP, i “Francs-tireurs partisans”, un gruppo partigiano creato dal Partito Comunista Francese, il quale aveva al proprio interno numerosi membri ebrei. Sui salvataggi della Grande Moschea di Parigi e sull’imam Benghabrit è uscito nel 2011 un film del franco-marocchino Ismaël Ferroukhi, “Les hommes libres”, e noti storici come Benjamin Stora si sono interessati alla vicenda. L’ebreo algerino Albert Assouline nel 1983 raccontò le proprie memorie della Grande Moschea nel documentario “La Grande Mosquée: une Résistance oubliée” diretto da Derri Berkani. Il giornalista algerino Mohammed Aissaoui invece affrontò il tema dell’aiuto dei musulmani ai perseguitati ebrei durante la Shoah nel libro “L’Etoile jaune et le croissant”. Un documento firmato dalle autorità di Vichy riconosce effettivamente che “”Le autorità di occupazione sospettano il personale della moschea di Parigi di rilasciare fraudolentemente a individui di razza ebraica dei certificati attestanti che gli interessati sono di confessione musulmana. All’imam è stato intimato in maniera perentoria di rompere con qualsiasi pratica di questo genere. Sembra, in effetti, che un certo numero d’israeliti ricorrano a espedienti di tutti i tipi per dissimulare la loro identità”. Ciò nonostante in Francia a causa della documentazione imprecisa è stato aperto un dibattito soprattutto in merito al numero delle persone che sarebbero state salvate nella moschea e al ruolo effettivo dell’imam Benghabrit. Un’altra figura sempre legata alla Grande Moschea di Parigi e al salvataggio degli ebrei francesi è l’imam algerino Abdelkader Mesli, egli, come raccontato dal Manifesto in un’intervista del 2017 al figlio Mohammed, per la sua attività di soccorso sarebbe stato individuato dai tedeschi e costretto a riparare a Bordeaux, da lì entrò in contatto con la resistenza, e fu poi imprigionato e spedito a Dachau. Molte vicende come questa forse usciranno ancora nei prossimi anni, acquisteranno contorni più precisi, o purtroppo rimarranno per sempre sconosciute e dimenticate. Ma storie analoghe che hanno coinvolto chierici o individui di religione musulmana durante la Shoah non mancano, soprattutto nei Balcani, utili a ricordare che, per quanto la storia degli ebrei nel mondo musulmano non sia sempre stata idilliaca – come a volte invece viene raccontata –, l’antisemitismo per quanto in questo diffuso non sia un attributo intrinseco e inscindibile dall’Islam.

Francesco Moises Bassano

(25 ottobre 2019)