Machshevet Israel Chi ha “fondato” il giudaismo
In un ciclo di conferenze sui “Fondatori di religioni”, a Modena, mi si chiede di parlare di Mosè, Moshe rabbenu. Facile dire che il giudaismo non è (solo) una religione e che Mosè non intendeva fondare nessuna religione nel senso che in Occidente si dà a questa parola. Ha invece dotato il suo popolo di una legge di giustizia e di misericordia, e soprattutto istituito un culto divino diverso da quello che aveva conosciuto in Egitto. La tradizione non gli accredita l’invenzione del monoteismo: per questo c’è la figura di Abramo, Avraham avinu; come entità politica, Israele comincia ‘dopo Mosé’: con Yoshua ben Nun, i giudici, Shaul e David; né il giudaismo come lo conosciamo oggi ha preso forma con lui, ma piuttosto con la scuola di Yavne e il variegato movimento farisaico. Nondimeno Mosè, per quanto messo in secondo piano dalla rilettura midrashica dell’haggadà di Pesach, è l’indiscusso protagonista dell’esodo: l’uscita dall’Egitto; e poi dell’evento-fondatore del popolo ebraico: l’alleanza al Sinai con il dono della Torà; e infine del lungo viaggio attraverso il deserto. Impossibile pensare le tre grandi feste che celebrano l’identità ebraica – Pesach, Shavu‘ot e Sukkot – senza pensare Mosè nel ruolo di guida politica, di giudice, di profeta. Persino di sacerdore, prima che di tale funzione fosse investito suo fratello Aronne. Sì, è vero, Mosè non ha fondato il giudaismo ma è quasi impossibile pensare e raccontare il giudaismo senza Mosè.
La sua figura ha affascinato Filone di Alessandria non meno che i maestri del midrash, gli autori di molti apocrifi ebraici come i Padri della chiesa, per finire con lettori moderni quali Heine, Buber, Freud, Achad ha-‘am, Neher… sino alla recente ‘biografia’ che gli ha dedicato rav Moshe Lichtenstein, figlio di rav Aharon Lichtenstein, e alle riflessioni di Micah Goodman in “L’ultimo discorso di Mosè” (Giuntina). Fuori dal mondo ebraico la figura carismatica e rivoluzionaria di Mosè è stata messa sotto scrutinio dall’egittologo Jan Assmann in tre suoi importanti libri: “Mosè l’egizio”, la “Distinzione mosaica” (entrambi editi da Adelphi), e infine “Exodus. Die Revolution der Alten Welt” (2015, non ancora tradotto in italiano). Le complesse tesi di Assmann tendono a contaminare le origini ebraiche dell’idea monoteista, proposta in Egitto dall’eccentrico e isolato faraone Akhenaton (XVIII dinastia) pur non uscendo dall’orizzonte del cosmo-teismo. Quell’idea satrebbe stata assunta dal principe egizio di nome Moses che organizzò la vita dei un gruppo di nomadi/lavoratori (poi espulsi) attorno al culto esclusivo (leggi: intollerante di ogni altro culto) di una divinità considerata l’unica vera. Forse nessuno studioso ha ‘attaccato’ il monoteismo della Torà in maniera più profonda, e degna di attenzione, negli ultimi settant’anni più di Assmann, per il quale tutta la violenza religiosa (di cristianesimo e islam) nella storia sarebbe figlia di quella ‘distinzione mosaica’.
Sommerso da critiche accurate di natura storica, filologica e teologica – soprattutto da parte dei biblisti cristiani – l’esimio egittologo, autore anche di un acuto saggio sul concetto di “memoria culturale”, ha revisionato le sue tesi, con una quasi-retractatio, là dove scrive: “La distinzione tra vero e falso non ha certamente nulla a che fare con Mosè, piuttosto con Zarathustra. Nella Bibbia comparve per la prima volta con i profeti dell’esilio e del post-esilio e risale probabilmente all’influsso degli achemenidi (che sconfissero i babilonesi) i quali erano zoroastriani”. Secondo l’Assmann più recente, la vera distinzione mosaica non è quella tra vero e falso, ma quella che “distingue tra fedeltà e tradimento; essa non nega l’esistenza di altri dèi ma piuttosto la presuppone (altrimenti non avrebbe senso la fedeltà)… Quello che la Bibbia lega al nome di Mosè è il ‘monoteismo della fedeltà’”. E ancora: “Oggi non chiamerei più quella distinzione ‘mosaica’, perché nel Mosè della Bibbia – cioè il Mosè dei libro dell’Esodo, dei Numeri e del Levitico – non è in gioco tanto la distinzione tra religione vera e falsa, bensì quella tra libertà e schiavitù, così come la differenza tra fedeltà o rottura del patto”. E’ un peccato che, fuori dall’accademia israeliana, il mondo ebraico non abbia preso sul serio la sfida di Assmann, almeno tanto quanto Assmann ha preso sul serio i testi biblici e le loro interpretazioni ebraiche (anche quelle eterodosse come il Mosè di Freud, ben studiato da Yosef Hayim Yerushalmi). I buoni avversari intellettuali sono provvidenziali per andare più a fondo e far avanzare la ricerca, il pensiero e la consapevolezza di sé.
La tradizione rabbinica insegna che ogni generazione di ebrei ha il suo Mosè e il suo Aronne, ossia non è priva di guide e di maestri capaci di illuminare, correggere e sostenere il popolo di Israele nella fedeltà al patto. Poco importa, dunque, ‘chi ha fondato’ il giudaismo e dove e quando: importa piuttosto che il popolo abbia sempre guide generose, umili e preparate, e magari anche capaci di confrontarsi e di rispondere a quanti, con onestà intellettuale, pongono sfide al giudaismo.
Massimo Giuliani, Università di Trento