Controvento
Raccontare l’esilio
“Là dove giace il cuore: note e parole d’esilio” è il titolo del concerto che stiamo organizzando per il Giorno della Memoria, il 23 gennaio 2020 presso l’Auditorium Parco della Musica, promosso dall’UCEI sotto il Patrocinio della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Perché l’esilio? Che cosa c’entra con la Shoah? L’idea che mi ha ispirata è che, per chi ebbe la fortuna di sopravvivere fisicamente, ci fu un altro tipo di morte: la perdita della patria, della casa, della lingua madre, dell’identità, dello stato sociale, del lavoro, dei ricordi, dei famigliari, degli amici. Perché l’esilio è questo: lasciarsi alle spalle la propria vita e cercare di costruirsene un’altra, altrove, inventarsi dall’oggi al domani un altro sé, essere guardati con compassione – ma più spesso con astio e superiorità, sentirsi incompresi e stranieri, diventare incapaci, almeno all’inizio, di esprimersi compiutamente. Balbettare, come Mosé.
Una situazione che è diventata nei secoli costitutiva dell’identità ebraica. Non per nulla ci chiamano il popolo errante. Dalla cacciata dal Paradiso Terrestre, primo esilio dell’umanità, a Babilonia, all’Egitto, a Roma… fatti schiavi, deportati, dileggiati. E poi la fuga dalla Spagna, dal Portogallo, dai Regni cattolici del Sud Italia. Gli orgogliosi ebrei sefarditi, che avevano conosciuto prosperità, erano un faro di cultura e di pensiero, si trovarono a vagabondare per l’Europa e il Nordafrica, o tentarono l’avventura verso il Nuovo Continente. E poi i ghetti, anch’essi una forma di esilio, l’errare di schtetl in schtetl per sfuggire ai pogrom nell’Europa dell’Est, e la Shoah, che non fu la fine della storia ebraica di esilio, perché fu seguita, dopo pochi anni, dalla cacciata dal Medio Oriente e dal Nordafrica, Algeria, Iran, Iraq, Libia, Tunisia, Libano, per non parlare dei falascià d’Etiopia. E oggi ancora c’è chi fugge dall’Europa, per le minacce antisemite e per il terrorismo di matrice islamica.
Ma l’esilio è anche condizione emblematica di tutta l’umanità, e in esso, forse, si potrebbe ravvisare il senso del castigo per aver violato il divieto divino. Si può a lungo discutere che cosa sia l’esilio. Essere deportati, tratti in schiavitù? Scappare dalla guerra e dalla persecuzione? Lasciarsi famiglia e casa alle spalle per cercare di sfuggire a un destino di miseria e sradicarsi lontano? Nella ma visione, che può essere non condivisa, quello che conta è che la condizione di esiliato è comunque simile per tutti, e lo testimoniano le parole che ho raccolto per commentare i canti di esilio, parole di scrittori e di poeti di origini diversissime, da Dante e Foscolo, a Neruda e Nabokov, a Jabès e Hanna Arendt, da Myriam Makeba al poeta armeno Yeghishe Charents.
Di tutti i concerti che ho organizzato, questo è forse quello che sento più vicino al mio cuore. Forse perché io stessa sono figlia di esuli, scappati dalla Romania a bordo di un barcone. Forse perché il tema è di straziante attualità – e lo diventerà sempre di più, con la epocale migrazione dal Sud verso il Nord, dalle dittature verso una speranza di libertà, dalla miseria verso il miraggio del benessere.
Gli spettacoli sono il prodotto di una misteriosa reazione alchemica, i cui ingredienti sono codificati, ma l’esito mai scontato. Questa volta è come se una regia imperscrutabile tenesse le fila, tanto da far pensare che ci sia una necessità, una urgenza a guidarci. Cristina Zavalloni, la meravigliosa cantante che ha fatto con noi “Serata Colorata” e “Libero è il mio canto”, aveva in repertorio molti pezzi di esilio. Raiz, star della canzone napoletana e interprete del film Passione di Turturro, ha una moglie ebrea ed è vicinissimo alle nostre tematiche. Dall’Armenia, dove il genocidio è una ferita non riconosciuta e dunque mai rimarginata, viene a suonare il duduk, lo strumento nazionale, una eccellenza mondiale, Gevorg Dabaghyan, e dal Canada arriverà l’Arc Ensemble del Royal Conservatory di Toronto, specializzato in musiche scritto in esilio da compositori ebrei durante la seconda Guerra Mondiale, che è stato nominato ben tre volte al Grammy Award. E i testi di scrittori e poeti, ma anche di tante scrittrici e poetesse esilaite, rivivranno attraverso le voci di Manuela Kustermann e Alessandro Haber, due mattatori della scena.
Chi fa spettacolo non può non essere superstizioso, perché ogni spettacolo è come un soufflé, basta che la temperatura del forno sia sbagliata, o qualcuno per sbaglio apra prima del tempo lo sportello, perché si afflosci. Ma in tutto il gruppo che lavora alacremente con me alla preparazione del concerto (a partire da Marilena Francese, con la quale ho organizzato tutti i concerti della Memoria, a Noemi Di Segni, che attivamente ci segue e ci ispira, al regista Angelo Bucarelli, ai musicisti e arrangiatori, al mio staff e ai numerosi amici e sostenitori che hanno aderito alla campagna “Adotta una canzone”), c’è grande emozione ed entusiasmo per la bellezza delle canzoni: da l’Etoile d’or del grande Herbert Pagani a Lacreme napulitane, da Va’ pensiero cantato dalle Voci Bianche dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia a Youkali di Kurt Weill, altro grande esiliato, da La rose enflorece, canzone tradizionale sefardita, e Roumenia, classico della musica klezmer, per concludere, dopo tanghi, worksongs degli schiavi americani, melodie armene, con Yerushalaim shel zahav, che vuole segnare la fine dell’esilio, il ritorno a Erez Israel. Sul nostro sito saranno disponibili, a partire da dicembre, informazioni e aggiornamenti sul concerto.
Viviana Kasam
(25 novembre 2019)