Not in my name a Milano Lezioni contro i pregiudizi di genere
Affrontare i vari aspetti della violenza sulle donne, conoscere quali strumenti adottare per contrastarla e comprendere quali risposte danno ebraismo, cristianesimo e islam in merito a questo problema. Sono alcuni degli spunti emersi dai ragazzi provenienti da diversi istituti milanesi che in queste ore hanno preso parte al progetto “Not in my name. Ebrei, Cattolici e Musulmani in campo contro la violenza sulle donne”. Un iniziativa promossa dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane assieme a Comunità Religiosa Islamica Italiana e Ateneo Pontificio Regina Apostolorum. Ospiti della sinagoga di via Guastalla, i trenta ragazzi alterneranno in questi giorni la formazione attiva con lezioni frontali; focus group con incontri con gli esperti delle religioni. Ad aprire questa settimana di lavori – con un programma ideato da Domitilla Melloni e Raffaella Di Castro – il saluto del rabbino capo di Milano rav Alfonso Arbib, che nel suo intervento ha ricordato un episodio di violenza contro le donne raccontato nella Bibbia: lo stupro di Dina, figlia di Giacobbe e Lia. Il rav ha ricordato lo stupore nel leggere l’indifferenza degli uomini rispetto al dolore di Dina e poi ha portato la riflessione sull’attualità. “Noi uomini dobbiamo cambiare la nostra mentalità rispetto a questo problema”, ha affermato il rav, ricordando come tutte le forme di violenza contro le donne, fisica e psicologica, debbano essere prese in considerazione, studiate e combattute. Per farlo, serve la consapevolezza anche dei più giovani a cui è diretto il progetto Not in my name. “Il nostro obiettivo – spiegano i formatori Domitilla Melloni e Fabio Michelini – è quello di promuovere il dialogo e il confronto tra i ragazzi, attraverso l’uso di metodi di formazione attiva e l’applicazione delle regole legate alla comunicazione rispettosa”. In particolare ai ragazzi sono state illustrate le cinque regole della Comunicazione biografico-solidale elaborate dalla Scuola Superiore di Pratiche Filosofiche Philo: la prima ricorda che, indipendentemente dal tipo di discorso, l’esperienza biografica è sempre presente; la seconda che “le affermazioni dell’altro vengono accolte come espressione del suo sé e delle sue credenze. Ciò significa che la comunicazione si discosta dall’opposizione di tesi in competizione per una verità che escluda la verità dell’altro”; terza regola, l’ascolto dell’altro è aperto, il che significa sospendere ogni interpretazione sostitutiva del tipo “Quel che ho sentito è solo una copertura di qualcos’altro”. Quarto elemento, la possibilità che il diverso punto di vista scopra altri aspetti di ciò che si è detto, e che questi altri aspetti possano essere liberamente presi in considerazione, o trascurati, da chi guida l’incontro; infine sospendere ogni tentazione di un confronto teso a confutare le idee degli altri.
Rispetto reciproco e decostruzione dei pregiudizi, in particolare legati alle tre religioni monoteistiche al centro del progetto, sono gli elementi che i ragazzi hanno evidenziato di più in questo primo incontro milanese come temi che desiderano affrontare: lo hanno fatto attraverso dei cartelli in cui raccontare cosa si aspettano e cosa no da Not in my name. “Cos’è per me la violenza di genere?”, è invece la domanda a cui sono chiamati a rispondere nel focus group condotto dalla sociologa del Cdec Betti Guetta. Un interrogativo a cui prova a rispondere in modo originale il doloroso libro di Serena Dandini e Maura Misiti, Ferite a morte. E se le vittime potessero parlare? (Rizzoli, 2013): alcuni brani accompagneranno in questi giorni di laboratorio i ragazzi, aprendo nuovi spunti di riflessione.
dr