Ticketless – Per Anna Bravo

cavaglionÈ improvvisamente mancata domenica scorsa Anna Bravo, storica e testimone di un’Italia civile. Interprete di una storiografia sciolta dai dogmi, autrice di libri importanti sul movimento pacifista (La conta dei salvati: dalla grande guerra al Tibet, storie di sangue risparmiato, 2013), sul ’68 (A colpi di cuore. Storie del Sessantotto, 2008), sulla Resistenza delle donne (In guerra senz’armi: storie di donne 1940-1945, 1995), va qui ricordata soprattutto per la pionieristica ricerca, portata a termine con Daniele Jalla e culminante in un libro che ruppe il pluridecennale silenzio sulla storia della deportazione italiana (La vita offesa. Storia e memoria dei lager nazisti, 1986, con una fondamentale introduzione di Primo Levi). Anna viene ricordata per la sua proverbiale bellezza, che fece di lei una sorta di Jane Fonda di Palazzo Campana, per la gentilezza dei modi, per la sua altrettanto proverbiale disponibilità al dialogo, ma di quel periodo aveva più di altro conservato per sempre lo spirito ribelle. Un’amore per la verità, costi quello che costi, che l’ha portata a fare giustizia di molti luoghi comuni sullo stesso ’68. Per esempio sul tema-tabù della violenza non esitò a dire tutto quanto andava detto. Ciò che la mise spesso ai margini, come una voce scomoda. Ricordo un suo coraggioso intervento sul tema dell’aborto e più di recente le sue libere opinioni sul conformismo del movimento me-too, in difesa per esempio di Catherine Deneuve. Non tacque nemmeno sul tema scomodissimo dell’atteggiamento della sinistra extraparlamentare di fronte a Israele. In un suo scritto, probabilmente il suo ultimo, consegnato poche settimane fa e dedicato al volume curato da Mario Toscano (L’Italia racconta Israele. 1948-2018, Viella ed.), articolo che sarà pubblicato sul prossimo numero della “Rassegna mensile di Israel”, ha scritto: “L’impressione (una fra le molte, ma imperiosa) è che settori non trascurabili (e di varie tendenze politiche) della stampa italiana abbiano per decenni coltivato una loro idea di ‘Buon Ebreo’ – la cui bontà si misurava innanzitutto sull’asprezza della critica pubblica a Israele”.

Alberto Cavaglion