La scuola e la Storia
Mi dispiace un po’ che su queste colonne, in un articolo per il resto del tutto condivisibile, sia stato scritto che nella scuola italiana la storia del XX secolo “non viene insegnata o, nella migliore delle ipotesi, viene insegnata solo superficialmente”. Presumo che intendesse essere una sorta di frase a effetto da non prendere alla lettera, per sottolineare quanto poco i giovani conoscano la storia contemporanea, ma credo che per combattere i pregiudizi e la disinformazione sia importante fornire dati corretti. In realtà da più di vent’anni i programmi di storia delle scuole secondarie di primo e secondo grado (cioè delle medie e delle superiori) prevedono che l’ultimo anno sia dedicato al XX secolo, e in effetti i libri di testo sono stampati secondo questa scansione. Naturalmente poi ci sono molti insegnanti che si trovano a trattare nell’ultimo anno argomenti che non hanno fatto in tempo a completare negli anni precedenti, ma questo accade praticamente in tutte le discipline, e in altre in modo ben più eclatante: per limitarmi alla mia esperienza personale, potrei raccontare che da commissaria interna ed esterna agli esami di stato raramente ho visto i programmi di latino andare oltre Apuleio (II secolo – si dovrebbe arrivare al V); di italiano mi è capitato di trovare classi che avevano trattato frettolosamente solo a fine anno scolastico Montale, la cui prima raccolta, Ossi di seppia, è del 1925.
La frase sul XX secolo non trattato lascia supporre che invece la storia precedente sia conosciuta meglio. Questo forse era vero per coloro che oggi sono adulti ma per i ragazzi non mi risulta affatto che sia così. La mia esperienza di insegnante del ginnasio in questi ultimi anni è scoraggiante: la storia antica (che oggi si studia solo alla scuola primaria, cioè alle elementari) è quasi sempre un vuoto totale, che tento di colmare con moltissima fatica (perché è una materia considerata secondaria anche dagli stessi colleghi) e spesso invano. La riforma Gelmini, che ha trasformato le due ore di storia e due di geografia in tre ore di geostoria, non è responsabile solo del taglio netto del 25% dell’orario (che non è uno scherzo) ma anche del fatto che l’accorpamento delle due discipline – che obbliga l’insegnante a fare la media tra tutte le valutazioni se vuole evitare proteste e ricorsi – permette in pratica di compensare la non conoscenza della storia con qualche nozione di geografia. Il risultato è che i ragazzi di oggi tutto sommato, a forza di film e Giornate della Memoria, hanno almeno qualche idea sulla Shoah, mentre sugli eventi della Giudea di duemila anni fa davvero non sanno nulla di nulla (e gli stessi libri di testo dicono poco o nulla); per non parlare degli Ebrei come popolo antico, spesso saltati a piè pari. Dunque, mentre da una parte si può nutrire qualche vaga speranza che gli adulti di domani sapranno cosa è accaduto agli ebrei nel XX secolo e saranno più sensibili al problema dell’antisemitismo, dall’altra non c’è alcuna ragione di sperare che dagli intellettuali di domani non arriveranno sparate come quella della Maraini della settimana scorsa, né che gli adulti di domani si renderanno conto dei pericoli dell’antigiudaismo.
Si potrebbe anche ipotizzare che forse il problema non stia neppure nell’insegnamento della storia – antica, moderna o contemporanea che sia – ma nella scuola in sé: nella burocrazia soffocante; nel timore continuo dei ricorsi che lega le mani a presidi e consigli di classe; nell’incapacità di stabilire obiettivi minimi che devono essere raggiunti da tutti; nella delegittimazione della figura professionale dell’insegnante (e da questo punto di vista la diffusione dei dati negativi sulla scuola italiana rischia di essere più dannosa che utile, perché fa sentire allievi e genitori ancora più in diritto di protestare, pretendere, imporre). Ma questi sono discorsi complessi, da affrontare separatamente.
Anna Segre, insegnante
(3 gennaio 2020)