Pregiudizi su Israele tra i banchi,
i cortocircuiti della scuola italiana

In una scuola di una città italiana viene invitato un ospite per parlare del conflitto tra israeliani e palestinesi. Un tema complesso che richiede preparazione, soprattutto se si parla a un pubblico di studenti. L’ospite presenta invece un resoconto distorto, proponendo una visione semplicistica del conflitto e addossandone tutte le responsabilità a una sola delle parti in causa: Israele. È veramente questa l’analisi che si vuole proporre a degli studenti? Su Pagine Ebraiche la testimonianza del docente Andrea Atzeni.

Un anno fa. In un prestigioso liceo proprio al centro della principale città dopo la capitale. Una circolare annuncia la conferenza dell’inviato in Medio Oriente di uno dei nostri quotidiani più diffusi. Lavoro qui solo da un paio di mesi e non so chi l’abbia invitato, perché e percome. Il suo nome non mi è del tutto nuovo. Tra l’altro è il medesimo, circostanza su cui egli stesso ha talvolta scherzato, del leggiunese eletto miglior giocatore italiano di sempre.
Il titolo è suggestivo: “Gaza Brucia”. È uno slogan persino usurato in certe recenti cronache. Sembra mancare il complemento oggetto. Gaza brucia i campi israeliani, magari? Visto che da mesi si susseguono le notizie dei disastrosi incendi causati da aquiloni e palloni incendiari. Gaza brucia copertoni al confine, anche? Ogni venerdì infatti i terroristi coperti dal fumo e mescolati nella folla esagitata cercano di sfondare le barriere per fare strage di cittadini israeliani. Gaza non brucia forse pure il carburante delle centinaia di missili che scaglia di continuo contro le città di Israele? E così e in modi simili non brucia anche buona parte del danaro che le arriva da ogni parte del mondo?
Poiché mi trovo ad accompagnarci una classe, ho modo di seguire l’incontro. Nonostante il titolo, non si parla granché di Gaza: né della miserevole situazione in cui i suoi abitanti sono tenuti dalla corrottissima dittatura di Hamas, né delle feroci violenze con cui essa soffoca ogni minima manifestazione interna di dissidenza. L’argomento sembra essere piuttosto la storia di Israele con controcanto palestinese. Almeno una grossa parte degli studenti partecipanti non frequentano l’ultimo anno, dunque il loro programma di storia non contempla le vicende in questione: sarà il solito primato dell’attualità a prescindere da tutto? E poi, diciamoci la verità, fossero anche tutti studenti prossimi all’esame di Stato, che cosa saprebbero veramente sulla storia di Israele e del popolo ebraico? In ogni caso i contenuti lasciano piuttosto perplessi. Tanto per cominciare, la rievocazione giornalistica del sionismo non prende le mosse, a differenza di ogni testo scolastico sull’argomento, da Herzl con l’affare Dreyfus e il Congresso di Basilea, e neppure dalla morte di Alessandro II coi pogrom giù fino ai Protocolli, e neanche da Moses Hess o dall’Alleanza Israelitica, e men che mai dall’identità millenaria di un popolo e dal suo movimento di autodeterminazione nazionale. Si parte dagli albori del XIX secolo, quando alcuni rabbini americani avrebbero lanciato l’idea di un “ritorno nella terra promessa del popolo eletto”, sollecitando una prima ondata di immigrazione e la formazione dei primi nuclei ebraici in Palestina. Quali le fonti, i nomi, le date, le cifre? Non è dato saperlo. Di certo questa retrodatazione rabbinica statunitense delle origini del sionismo piacerebbe a quanti demonizzano Israele come il prodotto di un’aggressione colonialista da parte di occidentali razzisti che si proclamano guidati da Dio.
Tuttavia, rispetto ai conflitti di Israele con palestinesi, arabi vari e musulmani assortiti, il relatore mette subito le mani avanti dichiarando di non voler definire ragioni e torti, lasciando agli astanti l’onere di stabilire chi abbia ragione. A sentire quel che dice in seguito e come lo dice, si ricava un’impressione un po’ meno lineare, anche se in cuor suo l’intenzione oggettivamente descrittiva è in certo senso del tutto sincera. E poi come si potrebbe mai porre in dubbio la buona fede? L’asserita equidistanza pare un suo modo d’intendere l’equanimità. Ora, posto che davvero lo si possa essere, neutrali e terzi, va osservato che la scuola (i programmi ministeriali, i manuali in adozione, le sue pratiche didattiche abituali) non sempre parte dallo stesso presupposto. Come se, per dire, nel riferire di un conflitto fosse sempre meglio tirarsene fuori, astenendosi da qualsiasi distinzione. Di solito anzi è ritenuto nel giusto chi, aggredito, si difende. Mentre il superamento in armi di un confine, lo sforzo di massacrare quanti più civili possibile, l’aggressione unilaterale finalizzata a cancellare un popolo e consimili gesta non sono ritenute di solito commendevoli. I libri di testo si dichiarano forse terzi tra Hitler e la Cecoslovacchia o la Polonia? Non sembrano indifferenti neppure rispetto all’Anschluss. Sappiamo però che alcuni riescono a vedere tutto alla rovescia.
Colpisce poi l’evocazione del genocidio nazista come precondizione della nascita del focolare nazionale ebraico. Israele cioè esiste solo grazie alla Shoah? Per via dei subitanei rimorsi di chi non è riuscito a impedirla? Di certo questa posticipazione funesta dell’affermarsi del sionismo piacerebbe a quanti demonizzano Israele come il frutto avvelenato del senso di colpa europeo servito agli incolpevoli popoli arabi, condannati così a subire le stesse sofferenze patite poco prima dagli ebrei. E d’altra parte la vecchia storiella a seguire, sull’acqua rubata dagli ebrei ai palestinesi, ora riproposta a proposito di Gaza con tanto di percentuali insieme precise e reticenti, non ricorda forse la vecchissima leggenda medievale degli ebrei avvelenatori di pozzi? Ma, a volerla dire tutta, non si saprebbe neppure dove iniziare: ci sono le vaghezze sulle imperfezioni della democrazia israeliana e su Hamas “organizzazione religiosa”, le ambiguità sulle minoranze ebraiche in Europa che porterebbero alla diffusione dell’antisemitismo, le insinuazioni su Ben Gurion e Jabotinsky, le indulgenze sulla cosiddetta Nakba e sulla pretesa dei profughi palestinesi per ius soli o per ius sanguinis al ritorno nelle terre che proclamano loro, le fantasie sull’assassinio di Rabin causa del fallimento delle trattative di pace, quelle sul pacifico Arafat stanco di guerra frenato da una telefonata minatoria, l’immancabile bantustanizzazione della Cisgiordania, i pacati giudizi sui sionisti guerrafondai con la bomba atomica e sulle inoffensive sassaiole dei palestinesi scavatori di tunnel, e via barcamenandosi senza né vittime né persecutori. Una sequela travolgente sconcertante e desolata. Anche a voler far chiarezza, da dove cominciare?
Privo come sono di qualsiasi autorevolezza in materia, preferisco inoltrare i miei appunti sulla mattinata a un paio di esperti di sionismo e antisionismo per acquisire la loro opinione. Uno di loro, a proposito del relatore, finemente osserva: “Sembra che voglia fare un grande sforzo di obiettività, di moderazione, di equidistanza, di comprensione delle ragioni degli uni e degli altri ma in realtà non è affatto così. Si capisce a ogni riga che agli arabi e ai palestinesi fa lo sconto, sono le vittime, mentre contro Israele continuamente insinua cose false e ingiuste. Chi esce dopo aver ascoltato questa conferenza non dice: è vero, ci sono torti e ragioni. Dice: che bastardi questi israeliani! con la scusa della Shoah… Penso che se io fossi stato presente, con molta calma avrei rintuzzato qua e là le falsità e le inesattezze. Soprattutto avrei sottolineato che la guerra dura da 70 anni perché il rifiuto della convivenza è arabo e palestinese”. E, più in generale: “Il problema vero è che vengono proposti in termini equilibrati, non propagandistici, imparziali e obiettivi, discorsi che sono in realtà faziosi e orientati a presentare Israele in una luce falsa e distorta”. Un altro mio interlocutore è più secco: “Il discorso è pieno di errori grossolani. A parte questi, l’interpretazione è tendenziosa e violentemente antisraeliana, veramente inaccettabile. Bisognerebbe sempre chiedere che di fronte a questo signore vi sia un’altra opinione, per smentire coi fatti le sue menzogne”.
Mesi dopo mi imbatto nella segnalazione di un articolo del giornalista in questione su una testata online. Mando anche ai loro collaboratori i miei appunti, chiedendo un parere. Due giorni dopo questi vengono pubblicati sulla loro pagina. Il commento introduttivo chiosa: “Nella conferenza presso il liceo sono molte le prese di posizione ostili e la lunga ricostruzione storica è omissiva e incompleta, e di conseguenza faziosa […] per esempio sminuisce completamente il terrorismo arabo palestinese, mentre focalizza l’attenzione quasi esclusivamente su Israele, colpevole secondo il canone degli odiatori”. Poi un duro interrogativo: “Ancora più grave è il fatto che un pubblico di studenti sia stato costretto ad ascoltarlo a lungo. È legale la propaganda, senza contradditorio, nelle scuole italiane?”.
Solo a fine anno scolastico la notizia di tale pubblicazione filtra in alcuni ambienti dell’istituto. Le scuole non amano la pubblicità e preferiscono curare direttamente i rapporti con l’esterno (infatti, nonostante le invadenti rappresentanze genitoriali e qualche occasionale scalpore giornalistico, al di fuori non si sa granché di quel che vi succede). I panni sporchi cercano di lavarli in famiglia, ammesso e non concesso che riconoscano le macchie e intendano davvero farle scomparire. Inoltre le ultime frasi citate devono suonare minacciose. In realtà non c’è stata alcuna costrizione e la domanda sulla legalità non è molto indovinata. Manco a farlo di proposito, proprio negli stessi giorni fa notizia la vicenda dell’insegnante di Palermo sospesa per non aver vigilato adeguatamente l’operato dei propri studenti, che durante una sua lezione si erano lanciati in una spericolata equiparazione del controverso decreto sicurezza con le leggi razziste di ottant’anni prima. Anche tale episodio fa emergere diverse questioni degne di riflessione mentre non si è certo provveduto ad affrontarle in modo adeguato.
A scuola comunque del merito non si parla. Nessuno mette in dubbio la fedeltà della trascrizione, anzi mi si accusa di aver registrato tutto senza autorizzazione e di averlo pubblicato su un blog. Urge piuttosto rinfacciarmi la violazione, col mio subdolo comportamento, delle tacite consuetudini di buona creanza scolastica. Avrei potuto intervenire subito per porre domande, correggere, sottolineare eventuali lacune e sostenere un punto di vista diverso. Mentre così ho invece sdegnato il relatore, chi l’ha invitato e insieme la scuola tutta. Sebbene tardivamente, attanagliato dal senso di colpa, cerco di fare ammenda porgendo i miei dubbi direttamente al giornalista, con la massima riverenza possibile, tramite l’indirizzo della redazione. Non ricevo risposta alcuna. Forse troppo tardi, ormai. Che si sia davvero adontato pure lui?

Andrea Atzeni

(3 gennaio 2019)