Memoria politica
Dunque siamo entrati nel mese (forse il bimestre?) della Memoria. Gennaio e febbraio, nel calendario civile italiano, oramai si connotano per questo aspetto, che coinvolge moltissime scuole ma anche ampi pubblici. Già altri hanno avuto modo di sottolinearlo. Senza intenti polemici, beninteso. Poiché molti di noi sono parte attiva in questo complesso processo di sedimentazione della coscienza civile. Fare memoria – espressione che può avere molteplici significati e ancor più concrete declinazioni operative – è un elemento fondamentale della cognizione della cittadinanza, ossia di quel patto di reciprocità (tanto presente nella vita di ognuno di noi quanto difficilmente descrivibile con le sole parole) che ci tiene legati gli uni agli altri. Da tempo, peraltro, ci si interroga non solo sui modi e i sui metodi per trasmettere consapevolezza ma anche sull’effettiva funzionalità che un tale impegno ha rispetto ai tanti destinatari. C’è un problema di fondo, neanche troppo sottile, che riguarda il rischio di inflazionare la comunicazione pubblica di immagini, discorsi, parole – di rappresentazioni, in un’espressione univoca e riassuntiva – laddove la quantità non è garanzia in alcun modo di qualità. Non si tratta solo di un problema di “sovraccarico” ma di potenziale eterogenesi dei fini: si ritiene che ripetendo qualcosa, ciò possa risultare maggiormente compreso e quindi condiviso. Non è sempre così. Molti sono infatti gli interrogativi al riguardo. Soprattutto – e già ci siamo interrogati in materia nelle trascorse edizioni di questa newsletter – quando si crea una sorta di letterale confusione (nel senso di accavallamento, sovrapposizione, contaminazione e commistione) tra finzione e realtà. La finzione, in questo caso, non è necessariamente menzognera ma corrisponde alla trasformazione di una raffigurazione sostanzialmente immaginifica in un fittizio dato storico. La realtà, d’altro canto, non è mai conoscibile fino in fondo per come fu vissuta da coloro che ne furono interpreti e protagonisti (spesso loro malgrado) ma attraverso i codici e i filtri di significato che usiamo nel presente. Si tratta letteralmente di tramandare qualcosa, attraverso le generazioni. Non esiste quindi nessuna ricetta univoca rispetto alla memoria, e al suo buon uso, se non il rimando ai tempi correnti, ai significati che lasciti anche terribili ci consegnano nei termini di consapevolezza, coscienza e responsabilità dell’oggi. Non è il solito programmino dei “buoni sentimenti” ma la cognizione della fragilità della cittadinanza democratica, laica e repubblicana. Un punto da cui partire, non per dichiararsi anticipatamente demotivati e intimiditi ma per capire di nuovo che “fare memoria” implica costruire la trama della politica. La crisi delle democrazie, infatti, si ha quand’essa viene consegnata a (pochi) burattinai e a (molti) burattini. Fa sempre una qualche impressione osservare come questi ultimi, manovrati dai primi, credano di esprimersi liberamente, quando invece sono servi della propria incoscienza. Che si alimenta di mancanza di memoria come senso della profondità storica, civile e morale. Poiché il riconoscere quel che è stato ci chiede comunque di schierarci, di fare delle scelte, di assumerci delle responsabilità al presente. Altrimenti tutto rischia di risultare vano.
Claudio Vercelli
(12 gennaio 2020)