Le donne in lager

Giorgio BerrutoDopo tanti anni ho riletto C’è un punto della terra… (Giuntina), il libro in cui Giuliana Fiorentino Tedeschi ha raccontato la deportazione a Auschwitz Birkenau. È una testimonianza preziosa, ma è anche un testo in cui l’autrice riflette con lucidità sull’esperienza vissuta, la commenta, e già questo basterebbe per auspicarne oggi la ristampa.
La prima cosa che mi ha colpito riprendendo in mano il libro è la presenza costante, nelle sue pagine, di un unico protagonista plurale. Come nelle tragedie greche il coro esprime il punto di vista collettivo della città, così qui è il coro delle deportate a restituire e filtrare i mesi trascorsi in lager. Non ci sono individui che emergono dalla massa senza volto e senza forma, come invece in Primo Levi o nell’Inferno dantesco, ma il collettivo delle compagne che sente agisce soffre all’unisono. Non si contano passi come “quelle parole […] colmarono una lontananza e in uno stretto abbraccio, aggrappate al carro, ci sentimmo tutte meno sole”, “chi era già passata temeva per le compagne magre, pallide, cadenti”, oppure “qualcosa era mutato nel nostro intimo: s’era assopita la sensibilità, s’era spenta la capacità di commozione”. Il colpo inferto a una è un colpo subito da tutte: d’altra parte “ciascuno nel campo era un sassolino caduto in un pozzo; ma fuori dal campo, si diventava un granello di sabbia in un deserto”.
Può sembrare strano, a fronte di quanto detto, che le pagine di questo libro siano affollate da tanti nomi propri. Giuliana Tedeschi, come altri sopravvissuti alla deportazione, è colpita dalla confusione delle lingue nel campo e ne rende conto riproducendo una costellazione di parole e frasi in tedesco, ma anche in francese, giudeospagnolo (numerose sono le deportate da Salonicco) e perfino dialetto lombardo. Le compagne vengono chiamate per nome ma non assumono la consistenza di individui. La sensazione è che l’utilizzo ostinato dei nomi sia una forma di resistenza alla trasformazione in numeri e alla cancellazione di ogni umanità, ma protagonista rimanga sempre il gruppo. L’attenzione rivolta alle parole del campo – a partire dall’onnipresente verbo organisieren, “organizzare” – non fa che confermare la consapevolezza, da parte dell’autrice, che il mondo inumano di cui il lager è laboratorio si faccia forte della primaria violenza contro la lingua.
La limpidezza con cui Giuliana Tedeschi cerca ostinatamente l’umanità nel lager si specchia peraltro in uno stile puntuale, preciso, netto. Non meno importante, il collettivo delle deportate esprime perfino nell’esperienza estrema di Auschwitz una femminilità negata ma non vinta. Le sorveglianti SS, per contro, non hanno nulla di femminile, “nere cornacchie” dal “volto spietato, estraneo alla commozione e a sentimenti femminei”. Come i tedeschi nel film di Roberto Rossellini “Roma città aperta”, non sono persone in carne e ossa ma figure di cartapesta, agenti meccanici della sofferenza altrui.
La restituzione dei fatti da parte della comunità delle deportate e il commento si intrecciano in ogni periodo. Un esempio tratto dall’ultimo capitolo, che racconta la marcia della morte da Auschwitz al confine tedesco, poi a Ravensbrück e fino all’Elba nei primi mesi del 1945, quando ormai “la fame è l’unica dominatrice”: “Il nostro animo era arido e silente, si andava spegnendo ogni capacità di reazione. La fame e la debolezza scheletrivano, ogni riserva fisica era consumata, non c’era neppure la forza di parlare”. Fino alle ultime righe, in cui ancora è il soggetto plurale a parlare: “Qualcosa allora si sciolse in noi. L’emozione dapprima sopita, poi trattenuta, ritardata, dosata con paura, proruppe in lacrime e gemiti di gioia. Ci abbracciammo tutte, finalmente persuase della nostra libertà”.

Giorgio Berruto