Non è tempo di perdono

calimani darioAlle commemorazioni dei crimini contro l’umanità, c’è una frase che non si riesce più ad ascoltare: “… perché non accada mai più”. Chi la pronuncia è sempre in malafede perché sa bene che tutto puntualmente riaccadrà. Così, a ogni nuova occorrenza, quella frase ripetuta acquista un senso sempre più fastidioso di retorica vuota e insopportabile. Il fascismo è accaduto, ma non è passato. Ci ha trascinato in una guerra che ha provocato all’Italia mezzo milione di morti; ha dato il suo contributo criminale alla Shoah. Dopo la guerra ha rapidamente indossato il doppiopetto e si è nascosto dietro la maschera borghese. Con altra mascherata e con connivenze dello stato ha riproposto le bombe stragiste di Piazza Fontana e di Piazza della Loggia. Ma alle commemorazioni si spera “che non accada mai più”. E non ci si rassegna, e ci si sente ripetere che bisogna superare le divisioni, che la storia va avanti, che il fascismo non esiste più, che non si riproporrà più, non nelle stesse vesti, almeno. Ora ha indossato una nuova maschera, populista e sovranista. Fascismo trasformista, fascismo che si sa mimetizzare e sa fingere nuovi sorrisi in attesa di mutarli in ghigni tragici.
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L’arma di difesa più demagogica, a difesa della minaccia fascio-leghista, è il ricordo dei gulag stalinisti. Come se un crimine potesse assolverne un altro.
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Il famoso filosofo sentenzia alla tv che è ora di perdonare. Dimentica, il filosofo, che si può perdonare solo dopo che una coscienza abbia metabolizzato la sua responsabilità oggettiva. Per uno che perdona ci dev’essere qualcuno che abbia prima chiesto scusa e perdono. In Italia però le colpe non sono mai state affrontate, né i crimini sono mai stati puniti. Nessuno ha mai chiesto scusa ad Anna Jarach, a Moise Calimani, a Pia Cesana e a suo figlio Leo, di due mesi. Né loro, del resto, hanno potuto scusare e perdonare i loro assassini. Nessuno si è mai riconosciuto colpevole. E se non esistono colpevoli non esiste colpa, e non vi è nulla da perdonare. Perdonare, poi, significherebbe metterci una pietra sopra, nascondere crimini e colpe, per non confrontarsi con i fiumi di sangue versato. Così, dei campi di sterminio, dei loro assassini e dei loro collaboratori fascisti non si dovrà più parlare. Dopo che per anni si è taciuto per non incrinare il processo di riappacificazione nazionale, ora è d’uopo tacere (e perdonare) per non intaccare il prodotto di quella riappacificazione artificiosa mai davvero ricercata, mai effettivamente avvenuta. E infatti il fascismo ricompare senza vergogna e tracotante sotto mentite spoglie. Al filosofo bisogna allora rispondere che nessun perdono è possibile, perché nessuno degli sterminati ne potrà mai fare il ‘dono completo’, gratuito e disinteressato. I sei milioni che mai avranno giustizia, cui nessuno mai chiederà perdono, non hanno più nulla da donare, oltre la vita che è stata loro strappata. E chi filosofeggia sul perdono non sa che cosa significhi sapere che la propria famiglia è stata sbranata ad Auschwitz da uomini come noi. Anziché di perdono, forse è meglio lasciare il compito all’oblio del tempo, freddo e implacabile.
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A Yad Vashem i capi di stato hanno commemorato i loro interessi. Davanti alla memoria dei sei milioni, Putin e Pence si sono titillati con schermaglie di parole, pensando agli equilibri politici nel Medioriente e giocando a scacchi con il destino di Israele. Macron ha dichiarato guerra all’antisemitismo mentre da anni gli ebrei francesi emigrano per sfuggire l’antisemitismo islamista che impazza indisturbato nel paese. Macron non se n’è accorto. Ipocrisia regna sovrana. Solo il presidente tedesco ha guardato in faccia la storia, e sottotono e senza infingimenti ha richiamato alla memoria i nomi di pochi sterminati, in rappresentanza viva dei molti. Ha rivendicato responsabilità del popolo tedesco, “‘L’assassinio di massa industriale di sei milioni di ebrei, il peggior crimine dell’umanità, è stato commesso dal mio paese…. Sono qui come presidente della Germania, carico di colpa… Vorrei dire che noi tedeschi abbiamo imparato dalla storia una volta per tutte, ma non posso dirlo mentre l’odio si diffonde’. È stato l’unico a parlare della realtà, anziché far politica dal palcoscenico di Yad Vashem. Gli altri, Ucraini, Lettoni, Lituani, Ungheresi, Rumeni, hanno avuto la buona sorte di non dover pronunciare discorsi ufficiali: tutti partecipi silenti, tutti collaboratori innocenti. I Polacchi, anzi, assenti con giustificazione formale. Mentre l’antisemitismo in tutta Europa si sparge nuovamente a macchia d’olio. I buoni propositi sono di circostanza.
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Di Shoah non si è mai parlato troppo per anni. I documenti erano troppo forti, troppo rivoltanti, troppo disumani. Possiamo accettare la disumanità del reale, ma non quella dei documentari. Così abbiamo fatto parlare per anni i superstiti, ma non troppo in dettaglio, e solo in poche specifiche occasioni, commemorazioni, celebrazioni, inaugurazioni di un monumento. Ora, i superstiti dei campi di sterminio stanno scomparendo e ne rimangono gli eredi, che non sono tuttavia testimoni di prima mano, quindi qualcuno potrebbe considerarli narratori di fantasia, millantatori di memoria altrui. Facciamo parlare poi coloro che si sono salvati nascondendosi in montagna, o scappando all’estero. Hanno sofferto, sono stati discriminati e perseguitati, ma si sono salvati, sono vivi e vegeti davanti ai nostri occhi. Qualcuno avrà modo di pensare che essere perseguitati, beh, forse non è bellissimo, ma l’essersi salvati assicura almeno il lieto fine, e tutto è allora andato per il meglio. Un po’ come La vita è bella di Benigni. Viva la vita! Il cielo è azzurro, il dolore è alle spalle, il bimbo riabbraccia la mamma e il mondo ci sorride. Così, nelle scuole e sui palchi, si mettono in mostra gli eroi inconsapevoli che hanno protetto, aiutato, nascosto, salvato tanti ebrei. Giusti delle Nazioni. E questo passa l’idea che, a conti fatti, l’umanità è buona. Non abbiamo mai intervistato un assassino, un torturatore, i carnefici di un milione e mezzo di bambini. E ovviamente non abbiamo mai potuto intervistare i torturati, gli sterminati, i gassati, o anche solo gli impazziti per il dolore di vedere il figlioletto lanciato in aria e fatto bersaglio. Vediamo il mondo colorato e troviamo consolazione, senza aver mai avuto la possibilità di fissare, peraltro, il buio malvagio negli occhi e nelle menti degli assassini. Ci piace pensare che, alla fine, il mondo è buono e il bene trionfa. La vita è bella. Guardare il cuore di tenebra è insopportabile, perché farlo? Voltiamoci dall’altra parte e andiamo avanti per il viale alberato che ci conduce al nostro futuro radioso. Come in un film. I miei figli non potranno mai leggere la cartolina che la madre di mia madre indirizzò ai suoi figli e gettò dal vagone piombato che la portava ad Auschwitz. Chissà quanti erano in quel carro. Chissà come ha resistito cinque giorni senza acqua e senza cibo. Chissà come ha fatto i suoi bisogni. Chissà se, schiacciata fra centinaia di persone, ha mai avuto modo e spazio per sedersi. Chissà se ha avuto lacrime per piangere. Chissà se aveva i piedi piagati alla fine del viaggio. Chisssà che cosa ha provato di fronte all’orrore. Chissà se l’hanno uccisa subito, all’arrivo. Chissà quali sono stati i suoi ultimi pensieri. Chissà quanto ha sofferto, soffocata dal gas. Interrogativi senza punti di domanda. Te li porti dietro fino alla tomba, da decenni, muti. Con lei non è morta solo la grammatica.
Ma il filosofo è saggio, e dice che è venuto il tempo di perdonare.
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La memoria è il nostro presente.

Dario Calimani, Università di Venezia