Machshevet Israel Quattro cose che si ignorano
In un recente incontro interreligioso sullo Shir hashirim/Cantico dei cantici a Pesaro (nella giornata cattolica per la conoscenza di ebrei ed ebraismo), un giovane prete biblista ha citato uno dei passi più belli e intriganti della letteratura cosiddetta sapienziale ebraica, ossia Mishlè/Proverbi 30,18-19. Lo riporto nella traduzione di rav Disegni: “Tre cose cose sono a me ignote, anzi quattro non conosco: il cammino dell’aquila nel cielo, il cammino del serpente sul sasso, il cammino della nave in mezzo al mare, il cammino dell’uomo in una donzella”. Uomo traduce ghever, mentre donzella traduce qui ‘almà, ossia una giovane donna. Interessante notare che i Settanta, la versione in greco, invece di ‘almà legge ‘alumaw, forse da un antico manoscitto poco discernibile e traduce di conseguenza: “il cammino dell’uomo (andros) nella sua giovinezza (en neoteti)”. Ovviamente questa traduzione cambia il senso del versetto in ebraico, nell’ebraico masoretico ma attestato già a Qumran. Solo con l’ebraico ha senso citare quel versetto a commento del Cantico, dove si parla degli imprevedibili e difficoltosi sentieri d’amore tra una ragazza e uno ragazzo, tra un uomo e una donna. Del resto la tradizione rabbinica attribuisce entrambi i due scritti, Cantico e Proverbi, a Shlomò/Salomone (sebbene il capitolo 30 abbia come autore esplicito un saggio di nome Agur).
Il versetto è un climax che intende affermare quanto incomprensibile – al di là della ragione o spiegazione logica, dunque irrazionale – sia l’amore, l’attrazione sessuale e l’intricato rapporto tra i due diversi sessi. Difficile dire se sia davvero collegato o meno alla sentenza che segue (versetto 20) circa la donna adultera. Ma il senso del proverbio sulle quattro cose che si ignorano, o almeno che sorprendono il saggio risultando ardue da capire, resta concluso in sé e il filo rosso delle analogie è dato dal quadruplice ripetersi del termine derekh: cammino, via, percorso. Non credo si vogliano qui sottolineare i miracoli del volare o galleggiare in cielo, del camminare sulla roccia senza grambe e piedi, del non affondare in mare: in questa prospettiva il miracolo dell’attrazione sessuale si dissolve nella natura. Mi piace invece legare i quattro distici proverbiali ai quattro elementi in cui ciascun soggetto ‘naviga’: l’aria, la terra, l’acqua… e il fuoco. Impossibile, nel mondo anrico, non cogliere con evidenza i primi tre; il quarto è ricavato per associazione, come inevitavile deduzione. Sono i quattro elementi che Empedocle di Agrigento, nel V secolo a.e.v., chiamava “le radici di tutte le cose”. Rimandando ad esse con quelle immagini allegoriche di ‘navigazione’ (aerea, terrestre, marina e… umana) il saggio Agur inglobla, per così dire, la concettualità greca nella chokhmà ebraica e afferma che persino a un sapiente risulta difficile decifrare e comprendere come vada il mondo. In ogni elemento c’è un che di imprevedibile e di incalcolabile alla ragione, un guizzo di arbitrio o di istinto che sta oltre la nostra ‘scienza’ o ‘filosofia’ (o ‘ideologia’). E la scienza conferma – già secondo Alexander von Humboldt, il più empedocleo dei moderni naturalisti – che il mondo è stato modellato dal fuoco dei vulcani… il dio Vulcano dei latini, l’Efesto dei greci, marito di Afrodite!
Questo guizzo raggiunge l’acme, il suo vertice negli affari del cuore umano, nelle relazioni d’amore tra i due sessi: quando avviene – e avviene quando avviene – sono nizozot, scintille. Ancora fuoco, dunque, che dei quattro elementi è l’indiscutibile vertice: il più potente, che non a caso assurge a metafora classica della passione e dell’amore, e che ritroviamo nello Shir hashirim al versetto 8,6 nell’espressione shalhevetjà, la “sua fiamma”, la quale – se si separano le ultime due lettere – diventa “la fiamma di Ja”, la fiamma divina, con rimando al Nome, unico appiglio (e ben si vede quanto forzato) per trovare una citazione del Divino in questo antico testo epitalamico. In ebraico fuoco è esh, le stesse lettere che compongono ish/ishà, uomo e donna; così intrinseco al racconto di ber-esh-it, all’inizio del mondo; la lettera del silenzio e dell’uno, la alef, associata alla shin, quella dei due nomi divini (Shaddai e Shalom) e quello di Shlomò, che per alcuni maestri di Israele non è Salomone ma Colui che fa armonia e rende integri, ovvero interi, immagine perfetta per l’essere umano creato ber-esh-it e inteso come maschio-femminile, unità-nella-diversità, parità-nel-conflitto, reciproco aiuto-nella-solitudine. Con la shin inizia lo Shir hashirim (1,1), quattro parole – come i quattro elementi o radici del mondo – che contengono ciascuna la lettera shin. Un tripudio di ‘sc’ in cui risuona anche sasson ve-simchà. Perché allora non interpretare la shin, con le sue tre asticelle che si alzano insieme, come la stilizzazione grafica di una fiamma di fuoco? Il fuoco dell’amore, che scalda e brucia ad un tempo, da ammirare con stupore ma a debita distanza, con prudenza. Non dice il Cantico: ki-‘asà ka-mavet ahavà, poiché forte come morte è amore (sempre in 8,6)? Ahinoi, forte come la morte, non più forte. E’ da questa constatazione forse che nasce la confessione di Agur, il suo non capire o il suo non voler capire “il cammino dell’uomo”.
Massimo Giuliani, Università di Trento