Concerto per voci e identità

anna segreAmpia partecipazione di pubblico a Torino per la serata dal titolo “Vocalità nelle differenti tradizioni sinagogali italiane”, durante la quale sono stati eseguiti canti rappresentativi delle comunità ebraiche in Italia e delle antiche comunità piemontesi. Si tratta di un patrimonio ricchissimo: ciascuna comunità ha musiche proprie, spesso diverse da quelle di tutte le altre, e può avere anche numerose varianti per lo stesso canto. Contemporaneamente ci sono continui scambi, canti che vengono ascoltati, trascritti o imitati, rabbini e cantori che si spostano da una comunità all’altra portando con sé il proprio repertorio. “Qualcuno di voi lo conoscerà certamente perché l’ho introdotto a Torino” è stata una delle frasi pronunciate più frequentemente nel corso della serata. E in effetti una parte non irrilevante del pubblico partecipava attivamente cantando i ritornelli e le parti corali, fino al gran finale tutti insieme senza distinzioni tra cantori e pubblico. Perché le musiche sinagogali non sono affatto un affare per addetti ai lavori, o per soli ebrei osservanti: dal canto che accoglie lo Shabbat a quello che precede il suono dello shofar, dalla tavola del seder di Pesach a Radio1 alla fine di Kippur, in un modo o nell’altro tutti ne sono coinvolti, anche se magari solo una o due volte all’anno. I canti della nostra comunità e della nostra famiglia ci entrano nelle orecchie fin da quando siamo piccoli, li ascoltiamo con nostalgia dopo un periodo di lontananza, sono la colonna sonora della nostra identità ebraica.
“Concerto di voci” era indubbiamente l’unico sottotitolo appropriato per la serata. Eppure leggerlo produce un’impressione strana: eleva ad arte ciò che per noi è quotidianità e contemporaneamente ci fa capire quanta arte ci sia nella nostra quotidianità. Sarebbe fuorviante il paragone con un concerto di musica classica a cui si assiste in religioso silenzio. Bisogna immaginare piuttosto quei concerti in cui il pubblico è coinvolto attivamente, partecipa, risponde, canta in coro le canzoni più note (o forse si potrebbe affermare che questo genere di concerto in fondo non è altro che una sorta di rito laico collettivo?)
Alla luce di queste considerazioni non credo che fosse necessario tradurre tutti i testi come forse si farebbe nel programma di sala di un concerto di musica classica. Quante canzoni in inglese (per non parlare di altre lingue) conosciamo a memoria e cantiamo volentieri a squarciagola senza sapere esattamente che cosa dicono? A maggior ragione il discorso vale per quei canti che costituiscono la colonna sonora della nostra identità ebraica. Certo, lo studio dei testi è fondamentale, ma è indubbio che la sola musica e i canti ascoltati e ripetuti anche se non pienamente compresi sono ampiamente sufficienti per suscitare emozioni, risvegliare ricordi, farci sentire parte di una comunità.

Anna Segre