Controvento – Primarie democratiche
A New York, dove mi trovo, non si parla se non incidentalmente di coronavirus, l’argomento che appassiona sono le primarie del partito democratico e passiamo le sere incollati alla tv a guardare i dibattiti tra i candidati, tutti peraltro di notevole qualità. Non ci ero più abituata: politici che parlano con competenza di politica, di programmi, di impegni concreti. In America si sta giocando una partita vitale non solo per il Paese, ma per il mondo. Dal risultato delle elezioni presidenziali dipenderà infatti il futuro di tutti, le possibilità di combattere il riscaldamento globale, di creare società più accoglienti e rispettose delle diversità, di mettere un freno al capitalismo selvaggio che ha ampliato a dismisura la forbice tra i super ricchi e il resto della società distruggendo la classe media, di modificare la politica estera, forse di evirare (volevo scrivere evitare ma la correzione automatica del mio computer ha trovato una parola più incisiva) una escalation machista che sembra destinata ad attizzare un nuovo conflitto mondiale.
Purtroppo, come avviene in Italia con la nostra sinistra, i candidati democratici, invece di unire le forze contro il nemico Trump, si stanno scannando tra loro. Ho assistito pochi giorni fa a un dibattito tra i sei principali candidati alle primarie del Nevada, che non hanno perso occasione per insultarsi a vicenda, e soprattutto per denigrare Bloomberg, l’unico che avrebbe la possibilità di farcela contro Trump, perché è rassicurante per i repubblicani moderati, e capace di catalizzare il consenso di chi è critico di Trump, e i voti della classe media democratica spaventata dal radicalismo estremista di Sanders, il candidato oggi in testa ai sondaggi. Bloomberg purtroppo non ha l’oratoria e la rabbia viscerale di Sanders, la sua espressione fredda e distaccata certo non giova a conquistargli simpatie anche se è difficile prevedere quanto i dibattiti peseranno effettivamente sul voto.
Nell’arena televisiva il più credibile è parso Peter Buttigieg, il trentottenne sindaco di South Bend in Indiana, intelligente e brillante, uno che si è imposto da solo da solo, senza capitali e potenti sostenitori alle spalle, laureato a Harvard con il Rhodes Scholarship (è la più prestigiosa borsa di studio americana: la vinse anche Clinton), orgogliosamente gay, dichiarato e sposato. Uno che ha chiara la visione di dove dovrebbe andare l’America, priorità la lotta per il clima e lo sviluppo delle energie alternative, attenzione ai giovani e alla middle classe, ampliamento della copertura assicurativa a tutti, ma senza stravolgere il sistema al quale la maggioranza degli americani è affezionata, e accoglienza per gli stranieri, per riportare l’America alle sue radici storiche multietniche. È il programma di tutti i candidati democratici, anche se ognuno lo coniuga a modo suo, ma Buttigieg è quello che lo propone in modo più equilibrato e serio. Inoltre è giovane, e sarebbe ora di dare spazio ai trentenni e ai quarantenni, che sono interessati a costruire il futuro perché lo hanno davanti a sé. Purtroppo, tra i nati digitali, cresciuti tra fake news e insulti gridati via web, il suo modo di fare educato e razionale non desta l’entusiasmo che meriterebbe.
Joe Biden, l’ex vicepresidente, mi è sembrato scialbo e poco convincente. Elizabeth Warren ricalca lo stereotipo della femminista aggressiva arrabbiata con il mondo. Amy Klobuchar, l’altra candidata donna, ha l’aria della professoressa che sa tutto meglio degli altri, che ha fatto tutto meglio degli altri, che ha conosciuto tutte le persone importanti e continua a ribadire di essere l’unica che sta “nell’arena”, cioè in Parlamento (finché Buttigieg non l’ha interrotta per ribattere che anche un sindaco sta “nell’arena” e anzi deve prendere continuamente decisioni che hanno un impatto immediato). Mi piacerebbe che l’America avesse un Presidente donna, ma non voterei per nessuna delle due.
E poi c’è Bernie, il vecchio pasionario che tanto scalda il cuore dei giovani. Per noi abituati all’oratoria comunista, ai Bertinotti, Sanders non rappresenta una novità. La domanda piuttosto è come mai questo vecchio incazzoso, dogmatico, rigido, che non sorride mai e ha fama di trattare malissimo i suoi collaboratori piace tanto ai ragazzi e rischia di vincere le primarie democratiche, portando quasi sicuramente alla rielezione di Trump, perché è troppo estremista per la maggioranza degli americani, anche quelli di fede democratica. Tant’è vero che nel suo strabiliante successo in Nevada gli analisti sospettano ci sia lo zampino dei russi, interessati a far vincere Trump e quindi a sostenere il candidato che ha meno chances di batterlo nel voto del 3 novembre -lo spettro dei russi è Bloomberg e probabilmente sono dietro anche alla campagna denigratoria che viene orchestrata contro di lui.
Ma russi o no, è innegabile che Sanders riscuota un grandissimo successo, soprattutto tra i giovani, che sono la forza portante del suo elettorato. Ho letto molte analisi per cercare di capirne le ragioni. La tesi più accredita, è che sia proprio il suo radicalismo socialista ad affascinarli. I Millennials e la generazione Z sono nati dopo la caduta del muro di Berlino e la fine della guerra fredda, non conoscono lo spauracchio del Comunismo che per i loro genitori e i loro nonni è stato il terrificante nemico contro il quale difendersi a ogni costo, il modello di vita antitetico ai valori americani. Per i giovani, parlare di scuola e sanità gratuite per tutti, non evoca il KGB, il terrore della bomba atomica, il sospetto di simpatie filosovietiche, ovvero l’alto tradimento della bandiera a stelle e strisce. Possono quindi permettersi di sognare un sistema sociale più protettivo ed egalitario. Inoltre, hanno vissuto la depressione economica del 2008, le cui conseguenze sociali noi europei abbiamo sottovalutato. In America famiglie intere si sono trovare dall’oggi a domani senza casa, senza lavoro, senza assistenza sanitaria. E i ragazzi hanno visto la politica soccorrere e salvare quelle stesse istituzioni bancarie e quegli stessi manager che avevano causato la crisi. Nutrono perciò un profondo disprezzo per il mondo della finanza, che è il bersaglio numero 1 di Sanders. Non è tutto. I giovani oggi sono fortemente penalizzati in America. Le Università sono costosissime, spesso i ragazzi si devono indebitare per laurearsi, portandosi poi dietro per molti anni il fardello di mutui pesanti. Sanders vuole rendere l’istruzione superiore gratuita e promette l’assistenza sanitaria che molti giovani non possono permettersi, perché le assicurazioni costano troppo. Altro tema forte di Sanders è la salute del Pianeta: propone misure drastiche per ridurre l’uso del petrolio e vietare il tanto temuto fracking, la perforazione profonda delle rocce, e promette nel giro di pochi anni un Paese totalmente basato su energie pulite. Il clima è la preoccupazione principale dei giovani oggi, come dimostra il successo planetario di Greta, e Sanders ne ha fatto il suo cavallo di battaglia, proponendo un nuovo Green New Deal.
Scuola gratuita, sanità gratuita per tutti, liberalizzazione dell’immigrazione, lotta alle armi e alle loro lobby, tasse più alte per i ricchi e più basse per i poveri e la middle class, aumento del salario minimo sono temi che fanno sognare i ragazzi. Fino a pochi anni fa fa questi temi non si potevano toccare, pena l’essere definiti comunisti. Sanders si guarda bene dal parlare di comunismo: il suo è un ideale socialista, ispirato ai Paesi dell’Europa del Nord. Ma è certo che la società che propone, una società idealistica ed egalitaria dove anche i deboli possono farcela, è il contrario del muscolare American dream, che premia le capacità individuali e il sacrificio. Sembra la rivalsa dell’Ombra junghiani, dell’inconscio collettivo represso.
Le previsioni dicono che alla scelta finale arriveranno in due: Sanders e Bloomberg, antitetici tra loro. Hanno in comune solo il fatto di essere entrambi ebrei e paradossalmente di rappresentare le due facce più dell’ebraismo più contestate dagli antisemiti: il capitalismo estremo (Bloomberg è uno degli uomini più ricchi del mondo e il suo successo l’ha realizzato a Wall Street) e l’idealismo socialista, quello del Jewish Labour Bund e dei kibbutz, ispirati alle teorie dell’ebreo Marx. Nessuno dei due è praticante, non si sa nemmeno se si identifichino con le loro radici ebraiche, e il tema non è mai toccato dai media, in un Paese dove ormai è severamente sanzionato qualsiasi riferimento alle origini etniche, religiose, al colore della pelle e agli orientamenti sessuali. Ma nel momento decisivo, quanto gli stereotipi potranno pesare? Trump è stato eletto da una America bianca, cristiana, razzista e conservatrice, che cova sotto la cenere del politically correct.
Viviana Kasam