Machshevet Israel Pompeo nel Tempio
Alla recente inaugurazione dell’anno accademico del Diploma in Studi ebraici dell’UCEI (evento formale ma che può occasionare stimoli extra, come è stato per me), lo storico dell’antichità Luciano Canfora ha parlato dell’aggressione del generale romano Pompeo a Gerusalemme, collocata dalle cronache nell’anno 63 a.e.v. Molte e di diverse epoche le fonti che ne parlano dividendosi sul dettaglio – che poi è il cuore della narrazione, almeno dal punto di vista ebraico – se Pompeo abbia o meno depredato i beni del Tempio oppure se si sia ‘limitato’ a constatare che il qadosh qedoshim, il Sancta sanctorum, era vuoto cioè privo di oggetti religiosi (chi sostiene questa tesi ama infatti immaginare la sorpresa, forse l’implicita ammirazione del generale per una religione così originale da non aver bisogno di immagini, statue o simboli). È ovviamente una proiezione romantico-protestante. Come il prof. Canfora ha mostrato nell’elencare e soppesare le fonti, le cose andarono probabilmente nel modo consueto per i costumi dell’epoca e l’astuto e avido soldato non agì a Gerusalemme in veste di turista religioso. Se mi è concesso, vorrei esprimerlo con un mio haiku (imperfetto, non essendo in giapponese): “Predator cortese/ Pompeo entra nel Tempio/ e ne fa scempio”.
Una delle fonti ebraiche citate dall’esimio studioso è un testo o meglio una collazione di testi assai poco nota ai non addetti ai lavori, i cosiddetti “Salmi di Salomone”, perduti nell’originale ebraico ma che debbono la loro sopravvivenza alla traduzione in greco, e così finiti in calce ai libri sapienziali della Septuaginta e in altri codici (trasmessi di ambienti cristiani) che li hanno salvati come ‘apocrifi antico-testamentari’. Da non confondere né con i Tehillim o Salmi tout court, né con le Odi (14 inni tratti sia dal Tanakh che dal Nuovo Testamento), questi “Salmi di Salomone” sono 17 componimenti poetici, di una certa bellezza, ispirati a temi tipici della teologia e della teodicea ebraiche dell’epoca del secondo Tempio. Secondo gli studiosi, il salmo II e il salmo XVII conterrebbero dei riferimenti espliciti a Pompeo, importanti tra l’altro per la datazione della loro composizione sebbene dicano assai poco su chi (persona o gruppo) li abbia prodotti. Il salmo II è di fatto una qinà, un lamento dedicato alla città di Gerusalemme, della quale si piange la devastazione per mano dei goyim, che l’hanno offesa e calpestata. E per quanto, secondo il testo, la causa di questo ‘castigo divino’ siano i peccati dei figli e delle figlie della città santa, si invoca il giusto giudizio del Signore contro quei masnadieri che, parlando latino, l’hanno violata. Roma contro Gerusalemme, Gerusalemme contro Roma.
Eccone alcuni versetti: “Nel suo agire arrogante, il peccatore con un ariete ha distrutto forti mura e tu [Gerusalemme] non l’hai impedito” (v.1). “I figli e le figlie [di Gerusalemme] in un terribile esilio, il loro collo marchiato come segno in mezzo ai gentili” (v.6). “Sono tormentato nel mio ventre e nelle mie viscere a causa di ciò” (v.14). “I gentili hanno calpestato Gerusalemme insultandola, la sua bellezza è stata trascinata giù dal trono di gloria” (v.19). Pompeo sembra apparire solo ai vv.25 e seguenti: “‘Non tardare, o Dio, a ripagarli sulle loro teste, a distruggere l’arroganza del dragone nel disonore’. E non ho atteso a lungo prima che Dio mi mostrasse la sua rovina: trafitto presso i monti dell’Egitto, è stato ridotto a meno di niente sulla terra e sul mare. Il suo corpo è stato trascinato dalle onde con grande vergogna e non c’era chi lo seppellisse…”. Come Faraone e come Aman, chi fa il male dal quel male viene travolto, punito da una giustizia che non lascia i malvagi impuniti e i giusti senza ricompensa. Classica teodicea biblica, seppur contestata da Geremia e Giobbe. Nondimeno, gli studiosi si sono chiesti: sarà davvero Pompeo, che in effetti morì in Egitto nel 48 a.e.v.? O non è forse Antioco IV Epifane? O lo stesso Erode il Grande, che non fu certo tenero con certi nobili ebrei aspiranti al trono di David? Difficile dire. Il salmo XVII, vv.12-13 riallude a Pompeo che “nel furore della sua ira… non si è trattenuto. Nel suo essere straniero… ha agito con arroganza e il suo cuore era estraneo al nostro Dio”. Ma l’interpretazione è incerta: Pompeo agì in prima persona o come strumento della punizione divina? Domanda teologica antica, dal Tanakh ai giorni nostri. E se agì come mediatore divino, è forse più scusabile o meno arrogante e malvagio? La fine del salmo è tuttavia un inno di consolazione, perché evoca un figlio di David (ovviamente un re-messia) che “giudicherà i popoli e le nazioni con la sua conoscenza della giustizia; terrà i popoli pagani sotto il suo giogo per servirlo, glorificherà il Signore davanti a tutta la terra e purificherà Gerusalemme” (vv.29-30). C’è fede autenticamente ebraica, e molto pensiero biblico e rabbinico, in questi testi apocrifi. C’è la desolazione ma anche la speranza; c’è il conflitto storico con le nazioni ma anche la di loro illuminazione e conversione al Dio di Israele, temi profetici tutti altrettanto classici. Chiudo con un altro haiku (o quasi), non mio ma del mio maestro Paolo De Benedetti: “Gerusalemme/ sogno mattutino/ dei re in esilio”.
Massimo Giuliani, Università di Trento