Conoscenza e commento
“Si potrebbe dire che il soggetto conoscente è simile al ragno che secerne, con l’aiuto di una sostanza tratta dal proprio corpo, dei fili e una tela sottile: rete di fili abilmente tessuta, pronta a richiudersi su tutto ciò che le passerà vicino. Malgrado il rapporto dialettico che instaura con la realtà, il soggetto conoscente, munito della tela di ragno dei concetti, secreta da lui, estende il proprio dominio sul reale al solo scopo di appropriarsene e di non lasciare nulla al di fuori. Il commento, invece, evocherà piuttosto l’ape, che va lontano alla ricerca del nettare e del polline – che preleva dai fiori senza distruggerli o ridurli – che le permetteranno di distillare il miele. È con questi andirivieni incessanti dall’arnia ai fiori, dal dentro al fuori, che l’ape si carica del succo delle piante e produce – in una sorta di trasformazione soggetta a regole – il miele. Se il ragno rischia di dissolversi nelle secrezioni costruttive della sua stessa tela mentre tenta di imprigionare il testo, l’ape, affaccendandosi industriosamente, lascia a quest’ultimo la sua condizione di apertura”.
(David Banon, “La lettura infinita. Il midrash e le vie dell’interpretazione nella tradizione ebraica”, Jaca Book).
La tradizione ebraica ha per molti secoli prediletto la via del commento a quella della conoscenza, l’opera dell’ape a quella del ragno. Il commento mantiene salda la centralità del testo, di cui anzi accentua l’inesauribilità, la dismisura; rompe la solitudine della conoscenza – la tela del ragno che cattura e riconduce a sé ogni esperienza – per avvicinarsi in modo incessante, eppure sempre nuovo, a quella riserva inesauribile di significati che ogni testo racchiude come un tesoro di possibilità.
Giorgio Berruto
(5 marzo 2020)