Machshevet Israel – Isacco e il ridere (ancora)
L’agelasta è una persona che non ride. O meglio, che non sa ridere: ne è impedita per censura (glielo proibiscono l’educazione e le tradizioni, ad esempio) o per autocensura, che è la stessa cosa, se crede che ridendo infrangerà quelle tradizioni e l’etica che le ispira. È stato fatto notare: più che altrove, è nei luoghi di culto che non si ride, o si ride assai poco, come se la sfera del religioso e del sacro fosse agelastica per costituzione. Del divino non si ride, ché il ridere non gli si addice. Se ciò ha qualcosa di socialmente vero, fa ancora più impressione che il secondo patriarca biblico – spesso relegato sullo sfondo, come il meno significativo della troica patriarcale – porti nel nome una risata. Itzchaq/Isacco in ebraico viene da tzachaq, che significa ‘ridere’, questo è certo, sebbene in sé il nome sia di difficile traduzione. Potremmo renderlo: ‘Riderà’. Ma chi riderà? E di cosa? Oppure semplicemente si può tradurre come ‘Riso’ o ‘Sorriso’. La vita di Abramo è tesa come un arco la cui freccia è questo figlio, Isaccio-frutto della ‘risata’, il quale sarà il padre di Giacobbe/Israele. Come a dire: Israele è il vero figlio di una risata. Se in termini antropologici il ridere non fosse una cosa seria, la nostra riflessione sarebbe a pun, un gioco di parole. Ma nella Torà i giochi di parole sono ‘rivelazione’ al pari di tutto il resto, quindi c’è di che pensare. Anche teologicamente.
Se ricostruiamo la vicenda e cercassimo tra i dettagli che hanno portato alla nascita di Isacco e alla sua vita (figura innocente e passiva, spesso rimossa quasi un clone di suo padre), ci accorgeremmo che tutti ridono tranne Isacco. Come già detto: il riso è strutturalmente polisemico. E il senso delle risate che annunciano e accompagnano la venuta al mondo di Isacco sono complesse, ed enigmatiche come il suo nome. Il primo a ridere, in faccia a Dio, è proprio Abramo in Bereshit/Gn 17,17, che qui sembra ridere di se stesso e di sua moglie: lui centenario e lei novantenne, alla profezia che avrebbero lui generato e lei partorito e allattato… chi non avrebbe riso? Ma chiaramente in questa risata nascosta (“inchinò il volto e rise”) non c’è solo l’autoironia, per la quale non occorre nascondersi. C’è soprattutto il dubbio e l’incredulità, dettate da buone ragioni fisio-biologiche. E’ a questo punto che il nome del nascituro viene stabilito da Dio stesso, per sancire che l’impossibile non è un attributo divino e dar conferma al patto. Ismaele va bene, sarà a sua volta benedetto, ma non basta: non sarà lui a generare Israele. Poi viene, più famosa, la risata di Sara in Bereshit/Gn 18,9-15, con il surreale dialogo con l’angelo/Signore: la matriarca ride, ma dice che non ha riso e viene contraddetta… Infine, al capitolo 21 – che si legge in sinagoga a Rosh hashanà – Sara torna sul tema: “Dio mi ha dato di che ridere e chi saprà il mio caso riderà”. Molte traduzioni rendono: “Chi verrà a sapere questo caso, riderà con me”. Ma è un’interpretazione. Può ben tradursi anche: “Chi lo verrà a sapere riderà di me” ossia mi schernità, e diverrò oggetto di scherzo e di battute. Due sensi chiaramente opposti. Chi ride di chi, in questa storia? Anche Ismaele metzacheq – ‘scherzava’ – dice il testo biblico facendo il verso al nome di Isacco: ma più che giocare, forse si faceva gioco di lui come spesso i fratelli più grandi fanno con i più piccoli… ma Sara a quegli scherzi non rise, anzi si adombrò.
Un esegeta sui generis, che sfugge a ogni categoria di scrittori, l’italo-ungherese Mario Brelich, avanza l’ipotesi che il vero Ridens della storia sia Dio stesso, che gioca con la natura (l’età dei genitori, la sterilità di Sara) e sembra tirare un brutto scherzo a Isacco stesso, sul monte “in cui Dio provvede” ma non dopo aver terrorizzato a morte il ragazzo. Per lui, la risata divina non allude, in modo compiacente e malizioso, a un atto sessuale fuori tempo ma a una prova di fede – che i rabbini chiamano aqedà, ‘legatura’ – che poteva finire male, un gioco pericoloso, uno sport estremo: Isacco sperimenta il lato terroristico del divino, il cui riso è presagio di punizione non di bonaria indulgenza. “Nel testo sacro, infatti, il riso di Dio ha un solo epiteto che ricorre regolarmente, e questo è: terribile! Dobbiamo prendere nota, sia pur con rassegnazione, che Isacco fu il terribile riso del Signore!” scrive Brelich, nella cui ipotesi esegetico-letteraria (un midrash laico e non ebraico, ispirato agli studi sulla mitologia e alla psicoanalisi, ma che attinge alle tradizioni orali del giudaismo rabbinico) la risata divina attesta la vittoria conseguita da Dio nella sua lotta con l’Uomo (con la U maiuscola), lotta iniziata nel momento in cui questi ha mangiato dell’albero della conoscenza del bene e del male. Cacciata dall’Eden, diluvio, Sodoma e Gomorra… sono solo le prime tappe della perenne lotta tra Dio e Uomo. Isacco/Risata segna la sconfitta umana e l’inizio di una storia di obbedienza, che passerà attraverso Mosè, giù giù fino a noi. Ipotesi suggestiva e libro (Il sacro amplesso, Adelphi 1972) tra i più affascinanti, straordinario contrappunto psicologico e metafisico alla saga di Abramo e Sara, costruito sul senso di una risata. Ipotesi agli antipodi, se letta in tralice, di quella dei maestri del midrash ebraico, che in Isacco vedono il rinnovellarsi della creazione stessa e il benevolo giudizio divino sul mondo: “Quando nacque Isacco, Dio si ricordò di tutte le donne sterili della terra…”. Potenza del davar acher.
Massimo Giuliani, Università di Trento