Accanimento mediatico

La liberazione di Silvia Romano non poteva certo essere celata all’opinione pubblica, ma la sua “esibizione” e l’offerta in pasto ad alcuni giornalisti e altrettanti concittadini fanatici poteva essere certo evitata, in primis da chi di dovere. La sua conversione all’Islam (e a quale tipo di Islam) doveva rimanere un fatto privato, e così l’appurare da parte dei famigliari e di eventuali psicologi se in questa scelta ci sia stata o meno una coercizione o una sorta di “sindrome di Stoccolma”.
Soprattutto, nessuno ha dibattuto nello stesso modo di Luca Tacchetto, liberato quest’anno e sequestrato sedici mesi in Mali, o del bresciano Luca Sandrini per tre anni in mano a dei rapitori vicino ad al-Qaida in Siria, entrambi convertiti all’Islam durante la prigionia, il secondo a quanto pare davvero radicalizzatosi. Affermiamolo nuovamente, viviamo in una società ancora impregnata di un forte sessismo dove una donna è già di per sé intollerabile per molti, se poi è velata tanto peggio, figuriamoci inoltre se abbiamo poi pagato un ipotetico riscatto per liberarla, “se ci stava bene poteva restare là” hanno berciato un po’ ovunque. Non a caso girava sui social una foto di Silvia Romano prima della prigionia vestita con abiti succinti, e un confronto con la stessa all’arrivo in Italia, evito di citare il commento ma si può ben immaginare.
Il salafismo e il terrorismo islamista sono tematiche attuali che, con cognizione di causa, non dovrebbero mai essere tralasciate, tanto meno tollerate, ma qui si tratta della vita di individui e di famiglie, non c’è nessuna finalità conoscitiva in questo caso, ma piuttosto accanimento mediatico, il quale non fa che animare intolleranze e ignoranze già diffuse. Se vogliamo proprio parlarne coerentemente, estendiamo il dibattito appunto a tutte le altre conversioni maschili citate prima e alla loro genuinità, o al concetto stesso di conversione. Un solo ultimo appunto è di natura in qualche modo “antropologica”, Maryan Ismail scrive su Micromega che l’abito di Silvia – probabilmente un Jilbab – “non è un abito tradizionale somalo, come è stato detto, non fa parte della sua cultura materiale, ma una divisa imposta dall’Islam politico”. Sì in parte è proprio così, l’Islam politico d’importazione specialmente saudita tende a definire e ad imporre modelli “puri” ed omologanti, dal Marocco all’Indonesia, schiacciando tutto ciò che pre-islamico o islamico c’era prima, ma si tratta questa di un fenomeno globale frequente anche in altre religioni e culture.

Francesco Moises Bassano