Il nuovo governo israeliano

Dopo che tre elezioni consecutive non erano state in grado di esprimere una maggioranza stabile alla Knesset, la formazione di un governo di unità nazionale è apparsa inevitabile. Non si tratta quindi di mettere in discussione questo governo o tanto meno di negarne la legittimità quanto di riflettere sulle conseguenze di un governo di unità nazionale, utilizzando anche la comparazione su quanto avvenuto in altri Paesi.
In Israele è sempre esistita, qualunque fosse la maggiorana alla Knesset, la possibilità di un’alternanza di governo, elemento fondamentale per la tenuta di un’autentica democrazia. Anche quando, nei primi venti anni di vita dello Stato, un partito dominava la scena politica israeliana, il Mapai-Partito laburista, esprimendo una classe dirigente di altissimo livello – che ha prodotto figure come David Ben Gurion, Golda Meir, Shimon Peres ma anche come Levi Eshkol, Moshe Sharett, Yitzak Rabin – è bene ricordare che quel partito non ha mai avuto, nemmeno nei momenti di massimo successo, la maggioranza assoluta alla Knesset e quindi è stato obbligato a formare governi di coalizione; ma soprattutto va ricordato che nella Knesset e nel Paese, nel quasi ventennio di egemonia laburista, è sempre esistita un’opposizione che rappresentava la possibilità di un’alternativa di governo, con l’Herut, il partito di Menahem Begin, che infatti nel 1977 vinse le elezioni ed espresse una classe di governo alternativa a quella laburista. Successivamente al 1977 si sono alternati alla guida del Paese governi guidati sia da esponenti del Partito laburista che del Likud, erede dell’Herut, mantenendo quindi la possibilità dell’alternanza.
È dal 2009 che la possibilità dell’alternanza è sembrata venuta meno per la crisi profonda del Partito laburista e, in genere, della sinistra che ha favorito l’affermazione incontrastata del Likud e soprattutto del suo leader Benjamin Netanyahu. Ma pure in questo caso va ricordato che anche il Likud non ha mai avuto da solo la maggioranza assoluta nella Knesset e che quelli di Netanyahu sono stati tutti governi di coalizione. Nonostante i successi di Netanyahu sia nella politica economica che nella politica estera, la necessità, per una democrazia matura come quella israeliana, di avere la possibilità di un’alternanza ha prodotto una formazione politica come Bianco e Blu di cui si possono facilmente rilevare le anomalie rispetto ai tradizionali schieramenti di sinistra, ma che, comunque, esprime l’esigenza di un’alternativa di governo alla dominante egemonia di Netanyahu e del suo partito.
Nel 1967, nell’imminenza di quella che fu la guerra dei Sei giorni, fu formato un governo di unità nazionale, che comportò comunque la partecipazione al governo del solo Begin come ministro senza portafoglio, così come nel 1984-1986 fu sperimentata, in una situazione di grave crisi economica, una coabitazione tra Shimon Peres e Yitzak Shamir. Oggi per Israele non esiste un pericolo paragonabile a quello presente nel giugno 1967 anche se il progetto di annessione della Valle del Giordano provocherà nuove tensioni con i Paesi arabi, e, in particolare, con la Giordania e l’Egitto per non parlare della permanente minaccia iraniana. La formazione del governo di unità nazionale, tuttavia, non è dovuta alla presenza di questi rischi ma, come si è visto, alla paralisi che si è determinata in conseguenza dell’esito delle tre elezioni consecutive.
Il governo di unità nazionale è pertanto frutto, più che di una scelta politica, di uno stato di necessità e come tale va accolto. Questo fatto ci invita a tener presente che questa situazione è per sua natura provvisoria e non potrà andare oltre la scadenza della presente legislatura. La necessità della possibilità di un’alternanza è vitale per una democrazia e se questa possibilità non venisse ristabilita la natura stessa della democrazia israeliana ne verrebbe fortemente a risentire.
La comparazione con la storia italiana degli anni successivi alla II guerra mondiale fino al 1992/1993 è molto istruttiva a questo riguardo. In Italia, la presenza del più forte Partito comunista dell’Occidente, legato all’URSS, ha impedito che si potesse costruire un’alternanza alla guida del Paese. I governi italiani dal 1947 al 1993 sono stati governi di coalizione formati sostanzialmente dagli stessi partiti, con la predominanza della DC che, però, non è mai stata in condizione di avere la maggioranza assoluta e quindi è sempre stata obbligata a formare governi di coalizione con gli stessi partiti. Il passaggio dai governi centristi degli anni ’40-’50 a quelli di centro-sinistra dei decenni successivi non ha modificato in maniera sostanziale il sistema politico che è rimasto segnato dall’impossibilità di una vera alternanza. I guasti che questa permanenza al potere della stessa classe politica senza possibilità di alternanza sono venuti clamorosamente alla luce nel 1992/1993, provocando la crisi dell’intero sistema politico. Non solo, ma da questa crisi non è uscita una classe dirigente rinnovata, capace di costruire una sana democrazia: da allora il sistema politico italiano è entrato in una fase di incertezza e di instabilità che dura ormai da più di venticinque anni, senza che si veda la conclusione di una transizione infinita. Una delle conseguenze più evidenti di una tale crisi è stato il progressivo scadimento della qualità della classe politica che ha riguardato tutti i partiti.
Se ho ricordato la vicenda italiana è per ribadire che i sistemi politici che non prevedono l’alternanza sono destinati al deperimento e alla decadenza. È perciò necessario, come già detto, che il governo di unità nazionale in Israele non duri più di quello che è strettamente necessario per superare il presente stallo. In caso contrario, potrebbe avvenire che il sistema producesse esso stesso una sorta di alternanza ma con caratteristiche assimilabili a quelle italiane: così come in Italia il fattore K fece sì che esistesse un partito di opposizione fortissimo ma inabilitato a costituire un’alternanza democratica, altrettanto potrebbe accadere che – se il governo di unità nazionale durasse oltre la stretta necessità – si manifestasse in Israele un fattore A, dove A sta per arabo: con la progettata annessione della Valle del Giordano altri cittadini di etnia araba si aggiungerebbero alla popolazione israeliana e si creerebbe la possibilità della presenza nella Knesset di un partito arabo forte ma inabilitato a costituire il nucleo di una alternanza di governo.
Per evitare che si produca una situazione del genere è necessario che l’ampia maggioranza che si è formata nella Knesset inserisca nel suo programma una riforma del sistema politico che impedisca il verificarsi di situazioni di stallo come quelle avvenute nell’anno precedente. Israele aveva già dal 1992 previsto l’elezione diretta del Capo del Governo, che infatti fu eletto con tale metodo tre volte, nel 1996, 1999, 2001. Ma poiché il Capo del Governo eletto con voto popolare doveva poi avere la fiducia della Knesset, la riforma fu più apparente che sostanziale e quindi fu abolita. Il ritorno all’elezione diretta del premier, senza però la necessità del voto di fiducia della Knesset, potrebbe essere il perno di una riforma del sistema politico israeliano e infatti questa possibilità è in questo momento discussa in vari ambienti politici e culturali israeliani.

Valentino Baldacci

(21 maggio 2020)