Berlino, Parigi, New York: la storia di tre fughe
Se già è difficile scriverne, e spiegare a parole chi è stata e cosa ha rappresentato Hannah Arendt per il pensiero del Novecento e quanto i suoi scritti siano ancora capaci di interpellarci, tanto più è notevole la difficoltà di confrontarsi con un personaggio così complesso usando le immagini.
Lo ha fatto qualche anno addietro Margarethe Von Trotta con l’omonimo film in cui la Arendt era interpretata da Barbara Sukowa, concentrandosi sul periodo di elaborazione di La banalità del male, il suo testo più noto e sul processo a Eichmann. Intervistata da questo stesso giornale (Pagine Ebraiche, febbraio 2014) aveva raccontato che la sua prima reazione era stata negativa: “È impossibile, perché devo farlo? Come posso fare un film su una donna che pensa?”.
“La Arendt – aveva ricordato Von Trotta – crede nell’utopia del pensiero, nella forza della filosofia, che può costruire un mondo diverso. Vuole andare a fondo, vuole capire le ragioni, il perché, ha il coraggio di non accettare compromessi, cerca di comprendere totalmente”.
“Io voglio, io devo capire”, ripete la Arendt nel film. E questo mantra ha guidato la Von Trotta prima e più recentemente anche Ken Krimstein, autore di Le tre fughe di Hannah Arendt, il graphic novel uscito nel 2018 e tradotto da Antonella Bisogno per i tipi Guanda.
Bibliografia immaginaria di una delle figure intellettuali più importanti del ventesimo secolo, il graphic novel è costruito intorno alle sue “fughe”: da Berlino nel 1933 per rifugiarsi a Parigi, per poi sfuggire alla Gestapo in Francia (dopo essere scappata dal campo di internamento) e riuscire ad arrivare a New York. Ma anche dalla filosofia per dedicarsi alla teoria politica, e la chiusura definitiva della sua relazione con il filosofo Martin Heidegger, suo controverso mentore ed ex amante, simpatizzante del nazismo.
Non è il primo libro di Ken Krimstein, le cui vignette compaiono sul New Yorker dal 2011: nel 2010 è uscito Kvetch as Kvetch Can, intraducibile e irresistibile raccolta dei suoi disegni a tema ebraico.
Attualmente Krimstein è al lavoro sul prossimo libro, che ha già un titolo: When I grow up. È quasi finito, e racconta anche via social network come il lavoro di adattare la biografia anonima di un adolescente cresciuto in Lituania prima della guerra lo abbia aiutato a mettere in prospettiva le restrizioni di questo periodo. Ma anche come neppure gli anni passati lo abbiano ancora fatto uscire dal mondo in cui si è completamente immerso per lavorare al graphic novel dedicato ad Hannah Arendt.
Tra fatica e determinazione, una biografia a fumetti
“Mi perdonerete, voi filosofi, voi studiosi, se la chiamerò solo Hannah… ma ha vissuto dentro la mia testa per tre anni.” È così che Ken Krimstein parla di Hannah Arendt, che è protagonista del suo primo grahic novel.
Ma – continua la spiegazione – non è proprio un graphic novel. Intanto non si tratta di una novel, un romanzo, bensì di una biografia. “Anzi, non è proprio neppure una biogrfia, a dirla tutta”, continua Krimstein.
La stessa Arendt scrive – in una citazione che apprezzeranno tuti coloro i quali raccontano delle storie – che lo storytelling svela un significato senza commettere l’errore di definirlo. Le tre fughe di Hannah Arendt è in effetti difficilmente classificabile come “fumetto”, è più una biografia a fumetti o meglio ancora, come la definisce lo stesso Krimstein, un “biopic”. Che continua citando Herzog: “Facts create norms. Truth creates illumination”, ma Werner Herzog – regista, sceneggiatore, autore e anche attore tedesco – ha anche spiegato che “Ci sono diversi livelli di verità nel cinema, e c’è una cosa che potremmo definire verità estatica. È misteriosa ed elusiva, e può essere raggiunta solo attraverso un processo di costruzione e immaginazione, e di stilizzazione”. È necessario dunque passare a uno storytelling, a una narrazione, che sia verità, non finzione. Anche se non è vera.
Per Walter Benjamin, altro grande pensatore del Novecento che compare nell’albo di Krimstein, il cronista, che racconta eventi senza distinguere tra il grande e il piccolo, mostra come nulla di ciò che è mai accaduto debba essere dato come perso nella storia. Si tratta di un modo di pensare la storia che approfondisce il passato per riportarlo, in un certo senso, al mondo dei vivi.
Tutte idee che hanno dato a Krimstein più che una spinta a immergersi nella storia di Hannah Arendt come se si tuffasse – parole sue – in una vera e propria macchina del tempo.
Uno dei problemi più complessi che ha dovuto affrontare, però, è stato trovare quello che sarebbe diventato il volto della Arendt. Esistono moltissime immagini, dei riferimenti visivi anche molto forti in cui la posizione, un certo modo di piegare il collo, o anche la sua collana e il tipo di vestiti spingevano in una direzione chiara. Ma ci sono voluti molti tentativi, e molti fogli strappati, per arrivare a tratteggiarne il viso in maniera soddisfacente. Ci sono fotografie di lei da giovane, in effetti, che sono sorprendenti, e diverse da quello che siamo abituati ad associare al suo nome. Restano comunque molte sigarette, qualche sorriso, e poi le immagini che si trovano nei documenti ufficiali: quello della naturalizzazione americana è stata una delle sue immagini di riferimento.
Si tratta di individuare un atteggiamento, forse, più che un’immagine e un’altra tessera, l’iscrizione alla National Library. Insieme alle foto fatte per la patente, hanno definito il personaggio. Un misto di stanchezza, fatica, e determinazione. Queste sono le caratteristiche della Arendt. I tratti che ritornano in ogni singola tavola.
E la spinta a occuparsi di lei risiedeva quasi interamente in una domanda: perché questa persona, indiscutibilmente uno dei più grandi filosofi del Ventesimo secolo, ha rinunciato alla filosofia? E poi la curiosità più grande: com’è la vita, dietro al pensiero? Come poteva essere questa donna così cool da andare in giro con Bertolt Brecht, Marc Chagall, Walter Benjamin, Marlene Dietrich, Billy Wilder e Saul Bellow? E molti altri…
Perché una biografia a fumetti? Nello scrivere una biografia – spiega ancora Krimstein – abbiamo un problema fondamentale: sappiamo come va a finire, e se sappiamo la fine di una storia in un certo senso si perde la suspence. Ma abbiamo un vantaggio: possiamo raccontare i luoghi con una maggiore facilità.
L’immediatezza è molto forte, e la possibilità di far visualizzare quello che altrimenti sarebbe solo un contesto, anche prendendosi la libertà di esasperare questo o quel dettaglio, è uno strumento molto potente.
L’esperienza di questo fumetto è stata molto in linea con quello che diceva la stessa Arendt: si impara come funziona il mondo attraverso le azioni. Grazie a quello che vediamo, di cui siamo testimoni. È lo stesso modo in cui ci rapportiamo ai fumetti. In un certo senso ne siamo testimoni. Le parole sono azioni.
Poi anche se i fumetti non parlano, in senso letterale, riescono a farlo, o per lo meno a mostrarlo: un dialogo, una discussione, sono molto più facilmente rappresentabili. Un dubbio, quindi, di conseguenza, diventa cosa viva. E la pluralità – che è fondamentale, per la Arendt – più pienamente rispettata.
Ada Treves, Pagine Ebraiche Maggio 2020