Malati di politically correct

Le sacrosante proteste antirazziste organizzate dal movimento Black Lives Matter, dilaganti nelle città americane dopo l’omicidio di George Floyd, generano come noto deprecabili, inquietanti derive di violenza in varie zone degli States: lo ricordavo nel mio intervento della settimana scorsa e pochi giorni fa su questa rubrica Valentino Baldacci analizzava il fenomeno, narrando la triste vicenda dell’ex-poliziotto nero David Horn vittima di una folla di afroamericani mentre a St. Louis tentava di difendere il negozio di un suo amico bianco. Vittima meno emblematica rispetto a George Floyd, ma non meno ingiusta.
L’onda lunga delle manifestazioni contro il razzismo produce purtroppo altri riflessi di follia e stupidità, certo meno immediatamente pericolosi ma altrettanto capaci di provocare danni a un sistema equilibrato di rapporti socio-culturali. Mi riferisco alla crescente tendenza a mettere al bando personaggi o icone ritenuti dalla massa, a ragione o a torto, coinvolti in situazioni di razzismo o in qualche modo effettivamente razzisti. Da qui l’imbrattamento, la decapitazione o addirittura l’abbattimento di tante statue nelle città americane e non solo; da qui la surreale e ridicola cancellazione di “Via col vento” dalla lista di film in visione su Hbo. Non importa se i personaggi in questione sono un Edward Colston, celebrato quale filantropo di Bristol in quanto finanziatore delle sue scuole e dei suoi ospedali nel XVII secolo (anche mercante di schiavi, è vero; ma questa era una attività imprenditoriale molto diffusa all’epoca, quando una vera e propria sensibilità razzista o antirazzista non poteva essersi ancora formata); o un Cristoforo Colombo, che in vita sua mai calpestò il territorio dei futuri USA ma chissà perché da folle indignate è oggi ritenuto responsabile dei ben posteriori massacri di nativi americani; o addirittura un Winston Churchill, che per la tenacia con cui la Gran Bretagna da lui guidata si oppose ad Hitler dovremmo celebrare tra coloro che ci hanno liberato dal nazismo e invece viene ora accusato di essere razzista e filo-capitalista. Non importa che “Via col vento” (pellicola del 1939) abbia vinto ai suoi tempi vari Oscar e sia tuttora considerato dalla critica un punto di riferimento epico nella storia del cinema; secondo gli iconoclasti dei nostri giorni il film fornisce un’immagine idilliaca della patriarcale società dello schiavismo americano, e tanto basta per metterlo al bando.
Quale senso possiamo dare alla sempre più diffusa “damnatio memoriae” se non quello di un’offesa alla propria intelligenza e alla propria cultura, ritenute evidentemente non in grado di valutare da sole eventuali errori commessi dai personaggi in questione, o inevitabili loro dissonanze rispetto al modo di sentire del nostro tempo, mai comunque tali da annullare i loro incontestabili meriti sanciti dalla storia? Possiamo forse oggi ignorare la storia? O riscriverla con i nostri parametri? O ergerci a suoi giudici assoluti in base al nostro modo di pensare? La realtà è che la mancanza di conoscenze e la carenza di prospettiva storica portano oggi alcune guide che fanno tendenza e la massa dietro di loro a considerare il passato con gli occhi puntati solo sul presente e sulla visione del mondo prevalente ai nostri giorni: una miopia falsamente buonista rispetto all’attualità, incapace di guardare al di là del proprio naso e di comprendere che ciascuna epoca vive e valuta il mondo nel quadro della propria cultura e dei propri valori di riferimento. Ciò non significa certo che i tanti errori e orrori del passato non siano tali e che non possano essere rifiutati radicalmente a partire dalla prospettiva presente; ma solo che ogni rilievo critico sul mondo di ieri dovrebbe tenere conto della sua specifica realtà e basarsi su fondate motivazioni inserite in una logica rete argomentativa, non tradursi in un semplicistico tiro al bersaglio. Altrimenti, l’obiettivo di humanitas a cui molti novelli Don Chisciotte guardano finisce per irrigidirsi in un modello preconfezionato, inesistente e impossibile di “società ideale” a beneficio di un mondo sognato in modo puerile, ben diverso da quello concreto del passato e del presente.
Senza contare i rischi a cui possono portare operazioni di semplificazione e assolutizzazione dei valori come quelle che tendono a fare di ogni erba un fascio e a recidere drasticamente tutto quanto non è integralmente in linea con il presunto modello di comportamento. Proviamo a enumerare questi pericoli: il fantasma delle liste di proscrizione, e quindi della nascita di nuove violente intolleranze; quello della cancellazione e/o della trasformazione dei fatti storici, secondo un’abitudine cara ai regimi totalitari e alle dittature in genere; quello di una “conventio ad excludendum” che in nome di ideali nobili vissuti in modo infantile può paradossalmente giungere a forme di esclusione non razziali ma ad esse in fondo analoghe.
Ciò su cui sto tentando di riflettere è una odierna patologia sociale: l’ossessione per il politically correct e il suo semplicistico buonismo. Il suo infantilismo superficiale e non politico è dopo tutto molto comprensibile; è forse anche il segno della diffusa e pertinace aspirazione a un mondo migliore. Peccato che si muova in modo invariabilmente contrario alla comprensione del reale, e dunque anche alla sua auspicabile trasformazione.
David Sorani

(16 giugno 2020)