Periscopio – Scelte unilaterali

Si susseguono, sui mezzi di comunicazione israeliani e stranieri, i commenti sul controverso piano di annessione di alcune zone della Cisgiordania preannunciato dal nuovo governo di Gerusalemme. Il tenore dei commenti, fuori da Israele, è quasi universalmente negativo. Cambiano le parole e i toni (chi dice semplicemente che l’annessione allontanerà la pace, chi profetizza catastrofici scenari di guerra e distruzione), ma è comunque un dato di fatto che le voci di approvazione, riguardo al progetto, sono praticamente zero, al di là di alcuni ristretti gruppi di persone ideologicamente orientate. Tutti i politici del mondo o si dicono contrari, o contrarissimi, o tacciono, e lo stesso può dirsi per tutti gli opinionisti, intellettuali e artisti, di vario genere. Ma anche all’interno di Israele le voci contrarie sembrano molto superiori a quelle favorevoli. Ciò, naturalmente, non vuol dire che la maggioranza degli israeliani sia contraria, ma soltanto che i contrari parlano di più dei favorevoli, o a voce più alta, e, soprattutto, che la loro parola è ospitata, dai media internazionali, molto di più di quella dei “pro-annessione”. Ma questa non è certo una novità: è ben noto che quasi tutti gli israeliani che hanno la possibilità e la voglia di fare sentire, all’estero, le loro idee sui problemi del Medio Oriente e del loro Paese, sono sempre molto critici verso le scelte del loro governo. Comunque, nel caso di specie, non si può certo liquidare il movimento di opposizione alla scelta di Netanyahu come lo snobismo di una èlite di intellettuali di sinistra, dal momento che anche non pochi esponenti di partiti conservatori, di giornali popolari e delle stesse forze armate hanno manifestato le loro preoccupazioni, o la loro aperta contrarietà.
Io credo che, prima di esprimersi nel merito del problema, sarebbe utile, o indispensabile, porsi una domanda preliminare, che invece viene sistematicamente elusa, da pressoché tutti i commentatori, siano essi simpatizzanti, antipatizzanti o indifferenti nei confronti dello Stato ebraico. Questa domanda è suggerita, fra l’altro, da una nota di commento sulla vicenda formulata su queste pagine, lo scorso 4 giugno, da una persona che stimo molto, e con le cui analisi sono spesso d’accordo, Stefano Jesurum. Il noto scrittore si dichiara fortemente critico nei confronti dell’annessione, e confessa, “col senno di poi”, di essersi pentito del consenso a suo tempo manifestato riguardo al ritiro unilaterale da Gaza, deciso, com’è noto, dal governo Sharon nel 2004, e attuato nel 2005. Anche quella, infatti, osserva Jesurum, “non è stata una scelta lungimirante e certamente non ha portato benefici né allo Stato di Israele, né ai palestinesi, né all’ANP e di conseguenza tanto meno al processo di pace. D’altronde la Storia insegna che l’unilateralità rarissimamente produce buoni risultati”.
La domanda, dunque, è questa: se le scelte unilaterali sono sempre sbagliate, cosa bisogna fare nel caso che quelle bilaterali o multilaterali siano del tutto impraticabili, in ragione della totale assenza di un tavolo negoziale, e della completa mancanza di fiducia negli interlocutori? Anzi, nella completa mancanza di interlocutori, di alcun tipo?
Perché il problema di fondo è questo. Che le soluzioni negoziate e concordate siano preferibili è un dato su cui tutte le persone ragionevoli e pacifiche non possono non convenire, ma ciò non significa che queste soluzioni siano sempre effettivamente a portata di mano, per il solo fatto che le si desidera. E l’atteggiamento, le posizioni, il linguaggio, le azioni delle attuali dirigenze palestinesi sono quelle che sono, non lasciano, su questo piano, nessun margine di speranza.
L’esempio del ritiro unilaterale di Sharon da Gaza, evocato da Jesurum, è emblematico al riguardo. Israele smantellò gli insediamenti senza chiedere nulla in cambio: avrebbe potuto concordare la mossa ad un tavolo negoziale, ottenere magari qualche contropartita, ma ciò era impossibile, perché Arafat aveva chiaramente fatto una scelta radicale di rifiuto del negoziato e di scelta della violenza e del terrore (e come ringraziamento, com’è noto, da Gaza sono poi solo piovute decine di migliaia di missili). L’alternativa, in quel caso, non era tra ritirarsi in modo concordato o unilateralmente, ma tra ritirarsi o no, e il governo fece, valutando le conseguenze, quella che riteneva la scelta più opportuna. Finché non ci sarà una chiara e sincera volontà negoziale, senza ambiguità, doppiezze e retropensieri, l’unilateralismo non può essere considerato conseguenza di un deliberato rifiuto del multilateralismo, ma, piuttosto, una scelta obbligata. Ciò è una cosa molto negativa, certo, una vera e propria tragedia, la cui prima responsabilità, però, non mi pare proprio che si possa attribuire a Israele.
Tanto premesso, nel merito della vicenda, pur evitando in genere di giudicare le legittime e opinabili scelte dei governi israeliani, anch’io, per quel che vale il mio parere, mi iscrivo al partito dei critici dell’annessione, per motivi diversi da quelli correnti, che spiegherò la settimana prossima.

Francesco Lucrezi